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 2010  febbraio 06 Sabato calendario

WALL STREET E LA PAURA DELL’ORO

La nuova stella nel firmamento culinario newyorchese si chiama «Maialino» - una versione super-lusso di una trattoria «tipica» romana che ha aperto da poco a Gramercy Park Hotel. Fino a questa settimana, i banchieri d’affari Usa erano molto più interessati alla disponibilità dei tavoli al «Little Pig» che alla salute economica dei porcellini dei mercati finanziari - Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna - i quattro Paesi che sono stati soprannominati «Pigs» da operatori di mercato burloni.
Ma dopo il crollo delle Borse di giovedì, i padri-padroni di Wall Street hanno smesso di fare la fila per gli spaghetti cacio e pepe di Maialino e sono stati costretti a concentrarsi sui deficit straripanti, economie comatose e governi deboli dei «Pigs». Non c’è voluto molto per infrangere i sogni di isolazionismo dei finanzieri americani - l’illusione che i mercati d’Oltreoceano avrebbero potuto evitare l’enorme crisi fiscale del Vecchio Continente. Anzi, c’è voluto abbastanza poco: un governo portoghese che ha avuto problemi a vendere delle obbligazioni, delle brutte notizie sulla situazione economica spagnola e le solite paure sulla stabilità della Grecia, et voila, un rogna europea si è trasformata in un malessere transatlantico e globale (anche i mercati asiatici hanno sofferto giovedì e venerdì). «Come ai vecchi tempi», è stato l’ironico commento di uno dei banchieri protagonisti della crisi del 2007-2008 mentre guardava i mercati cadere a piombo e all’unisono su televisori pieni di luci rosse e operatori con le mani nei capelli.
In 48 ore, i «Pigs» sono diventati l’incubo di Wall Street: il Dow Jones Industrial, il barometro della borsa di New York, non aveva perso così tanti punti da aprile, il prezzo del petrolio è crollato del 5 per cento e pure l’oro - il bene-rifugio più amato dagli investitori - è colato a picco. La situazione è migliorata un pochino venerdì ma quasi tutti i mercati hanno continuato a vedere rosso. Questa proprio non ci voleva - né per l’economia americana, né per i mercati internazionali e tantomeno per le fortune elettorali di Obama e dei suoi democratici.
Un mio amico banchiere che è un fanatico del jogging, ha paragonato le vicissitudini dell’economia americana a una corsetta a Central Park. «Stai correndo, pensando ai fatti tuoi, e appena prendi un po’ di velocità, un greco (o portoghese, o spagnolo) salta fuori dai cespugli e ti sgambetta». Lo sgambetto europeo, in questo caso, potrebbe costare caro ai consumatori e lavoratori statunitensi. L’economia americana è riuscita ad evitare una replica della Grande Depressione degli Anni 30, grazie soprattutto alla decisione del governo Obama di spendere più di 700 miliardi di dollari per rivitalizzare settori ed industrie che erano stati distrutti dalla recessione.
Nonostante ciò, un americano su dieci è senza lavoro, il mercato edilizio rimane moribondo e i consumatori - la tradizionale locomotiva economica - non hanno né i soldi, né la voglia di spendere.
L’unica speranza per evitare un’inattività economica prolungata, tipo-Giappone, sta in un ritorno di fiamma della base industriale e manifatturiera attraverso le esportazioni. Non è un caso che Obama abbia promesso di recente di raddoppiare il volume dell’export americano nei prossimi cinque anni.
Il problema è che il crollo dei mercati, le paure «europee» degli investitori internazionali e la prospettiva di una lunga recessione nell’Unione Europea, stanno trasformando il dollaro nella super-moneta del dopo-crisi. La divisa americana sta passando di record in record nei confronti del povero euro, rendendo i beni e i servizi made in Usa più cari e meno appetibili per le aziende e i consumatori dell’Ue, il più importante «trading partner» per gli Stati Uniti.
E non finisce qui. Le convulsioni dei mercati azionari e di materie prime sono molto preoccupanti per la stabilità del sistema finanziario americano e mondiale. Per me, il comportamento dell’oro è veramente molto strano.
La teoria - e fino a questa settimana anche la prassi - è sempre stata che l’oro tendere a salire di prezzo in tempi bui perché gli investitori cercano la sicurezza di un bene che non dipende dai mercati azionari e dai tassi di interesse. Questa volta, invece, l’oro ha perso più del 4 per cento del suo valore in pochi giorni.
Il sospetto - e la paura - degli operatori è che il repentino cambiamento di direzione dei mercati abbia messo in seria difficoltà un grande «hedge fund», o ancora peggio, una banca centrale, costringendoli a vendere le loro riserve d’oro a prezzi stracciati. Fino a ora non ci sono prove, ma l’esplosione di un hedge fund - o anche solamente il pericolo di un’esplosione - potrebbe avere effetti devastanti sul resto dei mercati.
Ma anche se la caduta dell’oro è una correzione «tecnica» (la scusa degli operatori quando non hanno spiegazioni plausibili) le vicissitudini degli ultimi due giorni hanno dimostrato che sarà complicatissimo per governi e banche centrali tenere a galla i salvagenti che hanno aiutato i mercati durante la crisi.
Negli ultimi mesi, il dibattito in America è stato sul «quando» la Federal Reserve e il Tesoro avrebbero dovuto smettere di pompare denaro nel sistema finanziario e lasciare i mercati e le banche liberi di interagire come prima della crisi.
Gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno cambiato le carte in tavola. La domanda non è più «quando» ma «se» il governo debba tagliare il cordone ombelicale coi mercati, almeno per i prossimi mesi - una decisione difficile che potrebbe a sua volta ritardare o diluire la ripresa economica.
In tempi come questi, sono solito consultare la più ottimista fonte che ho - un banchiere anziano che ne ha passate di tutti i colori ed è uno che vede quasi sempre il bicchiere mezzo pieno. L’ho chiamato giovedì sera e invece del solito tipo chiacchierone e contento, l’ho trovato taciturno e pensieroso. «Non mi piace. Non mi piace proprio», mi ha detto, «stai in guardia che la crisi non è finita».
Francesco Guerrera