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 2010  gennaio 28 Giovedì calendario

KABUL MISSIONE IMPOSSIBILE


Quest’anno nemmeno la neve ha fermato i talebani. Era dai tempi dell’invasione sovietica che in Afghanistan l’inverno segnava il crollo degli attacchi, paralizzando i movimenti dei miliziani. Invece queste settimane sono state di fuoco in tutto il Paese e l’assalto coordinato lunedì 18 gennaio nel centro di Kabul (presi di mira dai guerriglieri e dai kamikaze ministeri, alberghi, grandi magazzini e cinema) ha costretto il mondo a prenderne atto. Non si può non chiedersi come faranno le forze occidentali e il governo Karzai a riprendere il controllo della situazione. E quale potrà essere il ruolo dell’Italia.

La strategia del presidente Obama per l’Afghanistan e il Pakistan ha ancora molti scettici, in America e in Europa. In particolare non convincono le richieste di più soldati e il coinvolgimento militare con il Pakistan che lascia presagire nuovi e più complessi scenari di destabilizzazione regionale. L’Italia non ha fatto tuttavia alcuna obiezione ed ha immediatamente promesso l’invio di altri mille uomini (di cui 200 carabinieri). Il numero è tondo, ma non è frutto di alcun coordinamento Nato o europeo, visto che diversi altri Paesi ci stanno ancora pensando, e neppure di una valutazione strategica, visto che non si sa ancora come adattare il contributo alla nuova strategia di Obama. La frettolosa risposta di Roma riguarda infatti solo il parametro militare riferito all’Afghanistan mentre la strategia parla d’integrazione degli strumenti militari e civili nel teatro operativo afghano-pakistano, ma che politicamente comprende altri attori regionali importanti come l’Iran, la Cina, l’India, la Russia.

Anche accettando il presupposto che non si poteva dire di no, la nostra partecipazione avrebbe dovuto essere rivalutata ex novo, perché la situazione è molto diversa dal 2002 e perché, dopo otto anni di guerra mascherata, si dovrebbero riconsiderare fattori importanti come l’interesse nazionale, il tipo di operazioni, gli obiettivi da conseguire, il rischio da assumere, la legittimità e la sostenibilità dell’intervento italiano. L’impegno assunto appare coerente soltanto con l’esigenza auto-referenziale della Nato di dimostrare una coesione che non c’è e svela il tentativo di frenare la caduta libera della nostra credibilità internazionale. Da tempo non ci possiamo permettere di esprimere alcuna valutazione autonoma; abbiamo poche idee e non possiamo enunciarle senza rischiare ulteriori imbarazzi. In pratica stiamo pagando in uomini e miliardi la carenza di autorevolezza politica. Ce la siamo giocata non sul campo del dovere diplomatico e militare, dove stiamo facendo veri e propri miracoli, ma su quello dell’immagine politica. Ed è stato un fallimento.

Il fatto è che non abbiamo nulla di nostro che ci leghi all’Afghanistan. Non abbiamo interessi vitali nazionali. Gli stessi americani non hanno niente da sfruttare e non hanno investimenti da proteggere, ma abbandonando Kabul rischierebbero di perdere il controllo del centro degli scambi di risorse con il mondo islamico, con quello indiano, con quello russo e non ultimo con quello cinese. Per quanto ci riguarda, questi rischi sono inesistenti; anzi, se ce ne andassimo ci ringrazierebbero.

La stessa scusa della guerra al terrorismo fatta in Afghanistan per proteggere New York o Milano è ormai una favola, non perché non sia un buon motivo, ma perché essa viene già condotta con notevole successo da forze meno convenzionali delle centinaia di migliaia di soldati e con metodi molto meno appariscenti. E forse è per questo che gli americani non hanno chiesto molto e non ci hanno ancora detto per fare cosa. In termini numerici 7 mila uomini in più per alleati che dispongono di quasi due milioni di soldati, è meno di niente. In termini operativi questi uomini saranno inseriti nei vari pezzetti di Afghanistan che ormai ciascuna nazione della Nato gestisce senza sapere cosa fanno le altre. Noi italiani manderemo 200 carabinieri per la trita attività di addestramento degli afghani, sapendo che ci vorranno ancora decenni prima di poterli ritenere affidabili dal punto di vista tecnico e sapendo che forse non saranno mai affidabili dal punto di vista politico, dove per affidabilità s’intende la capacità di condurre operazioni autonome contro i nemici indicati dagli occidentali: ossia i loro parenti, i loro capi tribali, i loro amici o conniventi o mandanti. Invieremo altri 800 uomini per la regione occidentale di Herat affidata alla nostra responsabilità sapendo che il contributo che potranno dare al generale McChrystal - comandante in capo dell’armata occidentale - al Sud, nella terra madre dei talebani, sarà molto limitato sul terreno e molto problematico dal punto di vista politico. Il nostro settore è vitale per il controllo dei collegamenti con l’Iran. Siamo la forza meno destabilizzante e per il bene di tutta l’operazione dovremmo continuare a svolgere questo importante ruolo senza rambismi inutili e con maggiore discrezione.

McChrystal non può sguarnire il Nord-ovest neppure se sta ottenendo dei successi nel Sud del Paese. Non sa ancora se i 30 mila uomini in più potranno ribaltare una situazione che è degenerata parallelamente all’aumento delle forze americane e che vede i talebani impazzare nella capitale proprio mentre arrivano altri marines. Può cercare di cambiare la percezione con l’informazione, in pratica con la propaganda, ma insistere troppo sull’eliminazione dei talebani presenta un duplice rischio: che gli insorti aumentino le ostilità infliggendo perdite intollerabili e che i "successi" reclamati diano l’impressione di combattere un nemico inestinguibile.

Per il generale statunitense l’operazione è al buio e non è sostenibile a tempo indeterminato. E anche per noi. Lo sforzo promesso al buio dal nostro governo è sostenibile soltanto in superficie. Il discorso che l’operazione è a costo zero perché spostiamo uomini da un teatro all’altro è solo contabilmente corretto. Può sembrare una partita di giro, ma tale non è. Le missioni all’estero vengono finanziate dal debito pubblico e quindi continuano ad aggravarlo. Per mandare uomini in Afghanistan dobbiamo rinunciare ad altre operazioni d’interesse strategico più immediato e questo rappresenta un costo politico elevato. Inoltre, gli uomini che si possono estrarre dal Libano sono elementi di staff, non combattenti che dovranno vedersela con i guerriglieri, mentre quelli che si recuperano dai Balcani lasceranno vuoti di sicurezza in aree già instabili. Dobbiamo calcolare i rischi aggiuntivi che facciamo correre in Kosovo a minoranze di povera gente e a monumenti d’arte serbo-ortodossa e i maggiori costi di preparazione e addestramento. Dobbiamo considerare che far gravare questi costi sui capitoli del funzionamento penalizza l’esercito nella sua interezza, nella capacità operativa e coi disagi per il personale. L’incremento per l’Afghanistan sarà perciò limitato dal punto di vista operativo e accentuerà l’immenso squilibrio all’interno delle forze armate.

 evidente che nell’attuale situazione l’Italia non è in grado d’influire sulle decisioni già prese da altri. Gli obiettivi da raggiungere a breve termine non possono essere diversi da quelli fissati dal presidente Obama e i rischi da assumere dipendono dall’uso che il generale Mc Chrystal vorrà fare delle nostre truppe nei prossimi 18 mesi. Egli ha già affidato alle brigate americane compiti di infiltrazione, intelligence e repressione nelle aree degli altri contingenti Nato, incluse le "nostre" province di Farah ed Herat. Ora può scegliere tra mantenere lo status quo ad Herat e portare le truppe di rinforzo verso Farah, Helmand e Kandahar, modificando anche i settori di responsabilità e le regole d’ingaggio dei vari contingenti, o lasciare che il nostro contingente rafforzi il comando occidentale e infittisca la sorveglianza al confine con l’Iran. La seconda opzione, tecnicamente più soddisfacente della prima, può anche conciliarsi con un impegno più aggressivo a fianco degli americani impiegando le nostre forze speciali, gli elicotteri d’attacco e gli aerei con e senza pilota come una riserva pronta ad intervenire su loro ordine. Questo per il breve termine. Tuttavia, l’impegno italiano deve essere studiato soprattutto in funzione di ciò che sarà necessario fare fra 18 mesi e, comunque, nel caso che la strategia non dia i risultati sperati o non possa rispettare i tempi previsti.

La decisione è sempre americana, anche perché il presidente Obama con l’Afghanistan si sta giocando la rielezione nel 2012, ma l’Italia, come gli altri partner, ha il dovere di far conoscere ai cittadini, ai soldati e agli alleati, quali sono le condizioni di tempo, risorse e risultati per concludere la missione. Deve avanzare le raccomandazioni strategiche facendo leva su quell’approccio nazionale che sul terreno tutti apprezzano e che si basa sull’integrazione delle componenti civili e militari, sulla sicurezza propria e altrui, sull’equilibrio, il buon senso e l’umanità. Deve rifiutare la logica dell’auto-referenzialità e pensare agli afghani. Deve favorire la legalità sollecitando i processi agli autori di crimini di guerra e contro l’umanità e pretendere che il governo afghano assuma la responsabilità politica, morale e contabile degli aiuti che vengono elargiti. Deve realizzare un sistema di sicurezza militare funzionale ai progetti civili e umanitari e non soltanto all’autoprotezione dei nostri soldati. I progetti devono privilegiare l’istruzione, il sostegno all’economia e il rafforzamento delle istituzioni.

L’Italia deve promuovere una risoluzione delle Nazioni Unite che faccia il punto della situazione e stabilisca che tipo d’impegno dev’essere assunto dalle Organizzazioni internazionali, dalle varie Agenzie e dalle organizzazioni regionali di sicurezza. Bisognerà stabilire quali Prt - i centri per la ricostruzione del Paese - saranno necessari e passarli alla gestione afghana.

Infine, perché l’Afghanistan non finisca per essere soffocato dalle forze militari e paramilitari interne ed esterne si deve ridurre drasticamente la visibilità delle truppe internazionali per indurre l’Afghanistan ad una maggiore presa di coscienza del proprio ruolo e delle proprie esigenze. Si può assistere chi è a terra aiutandolo a rialzarsi e camminare o insegnandogli a strisciare. Il popolo afghano sa cosa preferisce.

*generale, ex comandante della forza Nato Kfor in Kosovo, membro del consiglio scientifico e co-autore del rapporto "Afghanistan 2010" della fondazione Icsa