Gianluca Montinaro, il Giornale 5/2/2010, pagina 28; Massimiliano Parente, il Giornale 5/2/2010, pagina 28, 5 febbraio 2010
CURZIO MALAPARTE (2
articoli) -
ROMANZI E LETTERE. GLI INEDITI DELL’ARCHIVIO DELL’ARCITALIANO -
Quando sono arrivati, ad aprile dell’anno passato - così raccontano coloro che hanno assistito alla scena - hanno di prepotenza invaso una delle sale più vaste: quasi un centinaio di scatoloni, resi ancor più imponenti dagli accurati imballaggi. Benché l’immagine lo possa far supporre, non si è trattato di un trasloco famigliare, ma dello spostamento di uno dei fondi più importanti, per articolazione e mole, della letteratura italiana del Novecento: l’archivio personale di Curzio Malaparte. La comprensibile emozione dell’apertura dei primi faldoni, paragonabile ai sentimenti provati da Howard Carter nell’accedere alla inviolata sepoltura di Tutankhamon, sta in questi mesi lasciando il posto alla consapevolezza di trovarsi davanti un autentico patrimonio di carte inedite, corrispondenze, quaderni di appunti.
Tutto ciò sta avvenendo presso la Fondazione Biblioteca di via Senato, a Milano, l’istituzione culturale creata nel 1997 da Marcello Dell’Utri. L’acquisizione, fortemente voluta dal senatore Pdl - noto per i suoi interessi bibliofili -, giunge dalla casa degli eredi diretti di Malaparte, guidati dall’avvocato Niccolò Rositani, la cui nonna materna Edda era sorella dello scrittore pratese. L’operazione non ha ovviamente mancato di suscitare uno strascico polemico quando, da alcune istituzioni toscane, si è gridato allo scippo. Le stesse istituzioni che per anni sistematicamente hanno ignorato gli appelli degli eredi per catalogare e valorizzare l’archivio dell’«arcitaliano». Forse per antipatia nei confronti del fascista provocatore. Sicuramente per ignoranza verso lo stilista innovatore e l’interventista culturale. Antipatia e ignoranza alimentate nei decenni dalla critica marxista che ha sempre liquidato Malaparte in poche righe (appena nove nella Storia della Letteratura italiana di Giulio Ferroni!) tacciandolo di «volgarità e cattivo gusto difficilmente superabili». Per fortuna la Storia insegna qualcosa di diverso. Il destino di archivi e collezioni è quello di viaggiare, smembrarsi e ricomporsi in nuove situazioni. E grazie a essi mutano le interpretazioni e i giudizi.
I circa 300 faldoni, posizionati nelle scansie di armadi approntati su misura di quella che è stata battezzata «Sala Malaparte», sono ora in fase di minuziosa catalogazione, azione che prelude a ogni futuro accesso di studio. Per intanto nessuno è in grado di conoscere con esattezza il loro contenuto. A una sommaria analisi pare esserci di tutto: appunti, fogli sparsi, abbozzi, correzioni, manoscritti, dattiloscritti postillati, inediti di romanzi e opere teatrali, articoli di giornale, un’immensa mole di corrispondenza, fotografie e oggetti effimeri (come tessere di partito, inviti e biglietti da visita). Il lavoro di censimento ha preso il via dalle lettere. Giunto ora a metà si sono già rubricati 2500 nominativi di persone in rapporto diretto (per interesse politico, letterario o di semplice amicizia) con Malaparte, mentre si sono per ora tralasciati quelli dei lettori delle sue rubriche giornalistiche fra cui, nel secondo dopoguerra, la celebre «Il battibecco», sul settimanale Tempo.
A occuparsi della catalogazione è un’équipe guidata da Matteo Noja, responsabile dei Fondi Moderni della biblioteca, in parte facilitata dalla ricostruzione dei flussi di corrispondenza effettuata vent’anni fa dalla sorella di Malaparte. I grandi nomi si sprecano: da Henry Miller a Ezra Pound, da Sandro Penna a Elio Vittorini, passando per Piero Gobetti (per il quale, nonostante le differenti posizioni, lo scrittore pratese aveva grande stima), Giuseppe Prezzolini fino a una commovente epistola nella quale Louis-Ferdinand Céline, reduce dal noto processo per collaborazionismo e in gravi difficoltà economiche, ringrazia Malaparte per avergli devoluto il danaro di un premio letterario.
La valorizzazione di tutti questi materiali sarà garantita da una futura digitalizzazione, al fine di metterli a disposizione della parte più ampia possibile degli studiosi. Ed è proprio in questo quadro di generale promozione che si colloca il primo evento malapartiano della Biblioteca di via Senato. Il prossimo 1 marzo, nei suoi spazi espositivi, la biblioteca inaugurerà una mostra (che poi si sposterà a Prato in ottobre) di una parte dei documenti dell’archivio. Nella prima sezione si narrerà la vita di Malaparte, nel modo più oggettivo possibile, considerandola come puro susseguirsi di date e avvenimenti. A scandirla saranno i quattro elementi: il fuoco, inteso come l’ardore della giovinezza, degli studi e delle passioni, ma anche della Prima guerra mondiale; l’aria come vento del nuovo, in Italia e in Europa, negli anni Venti e Trenta, e come approssimarsi della tempesta di una ulteriore guerra; la terra, ove rovina tutto il continente, fra morti e macerie, nella generale caduta dei regimi e degli idoli; l’acqua, elemento di purificazione e di rinascita verso nuovi orizzonti.
A fare da contraltare, si pone lo sviluppo della attività letteraria di Malaparte: dai lavori giovanili (poesie e taccuini di guerra) agli scritti giornalistici (sviluppatisi nel vasto dibattito delle riviste) e al primo grande successo, Tecnica del colpo di Stato (1931), per proseguire poi con Kaputt (1944) e La pelle (1949) e terminare con l’esplorazione di nuove forme d’arte: il cinema e il teatro. La seconda sezione porrà in esposizione una cinquantina di foto, scattate da Malaparte in occasione di alcuni dei suoi tanti viaggi: in Etiopia, nei Balcani (al seguito delle truppe tedesche) e in Cina (quando ebbe anche l’occasione di essere ricevuto dal presidente Mao).
Ma le sorprese sono appena all’inizio. infatti annunciata la pubblicazione di un primo inedito, un romanzo ambientato nella Russia degli anni Venti, nel quale Malaparte racconta il mutamento dei rivoluzionari bolscevichi in classe dirigente. Insomma vasti terreni vergini si stanno per aprire a studiosi e ricercatori. Fascista e rivoluzionario, provocatore e uomo d’ordine, innovatore e reazionario... L’enigma Malaparte sta solo aspettando che sia proposto un più equilibrato giudizio che tenga conto di tutti i suoi molteplici e apparentemente contraddittori aspetti, nell’azione culturale così come nella speculazione politica. Mentre nella vasta sala della Biblioteca di via Senato ferve il lavoro, dagli scaffali occhieggia, singolare coincidenza, un volume di un altro «irregolare»: Yukio Mishima. Sulla copertina il ritratto dello scrittore giapponese vestito col kimono. Nella mano destra la katana (spada), nella sinistra un libro. Non si sono mai conosciuti, Mishima e Malaparte. Ma si sarebbero certamente piaciuti.
Gianluca Montinaro
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LA SUA INATTUALITA’ SENZA TEMPO HA MESSO "KAPUTT" I DETRATTORI -
«Noi non stiamo né con Dalì né con De Sade, noi stiamo con Manzoni. E sia dal punto di vista dell’arte che da quello dell’umana pietà, inseparabili, a Malaparte di questa sua ultima impresa, non ci sentiamo d’essergli grati». Non era Filippo La Porta a scrivere questa condanna edificante, ma Emilio Cecchi, un intellettuale di tutto rispetto, a proposito de La pelle.
Il problema è che a grandi scrittori italiani corrispondono sempre grandi imbecilli di critici loro contemporanei, e spesso neppure quelli. Qualcuno se ne accorge qualche decennio dopo, quando riconoscere non costa nulla, per poi finire non letti due volte dalla noia e dal biografismo scolastico dei professori, dove un genio come Leopardi è ancora il gobbo brutto e sfigato che per questo scriveva A Silvia (e si spari con il napalm anche sulla trasmissione Il più grande condotta da Francesco Facchinetti, dove viene fuori tutta l’eredità del provincialismo scolastico perfino degli intellettuali ospiti, e vorrei dire a Giampiero Mughini, per esempio, che Leopardi, se anche fosse stato George Clooney, sarebbe stato Leopardi, mentre George Clooney, se non avesse avuto la faccia di George Clooney, non avrebbe fatto niente, tantomeno si sarebbe fatto la Canalis).
Così i romanzi e i libri di Curzio Malaparte, la cui opera, ancora oggi, anziché occupare un posto d’onore tra gli scrittori italiani, è confinata in una nicchia di stravaganza e ribellismo politico-elzeviristico, e questo quando va bene. Quando va male Asor Rosa lo antologizza scambiandolo per Curzio Maltese. Ci voleva non un critico, bensì uno storico controcorrente come Giordano Bruno Guerri (se volete saperne di più, leggete il suo bellissimo L’arcitaliano), per ridare a Malaparte il posto che meritava. Analogamente a Gabriele d’Annunzio (e anche, per le stesse ragioni rovescio della stessa medaglia, allo stesso Leopardi), paga lo scotto di una vita avventurosa e inclassificabile, affossato da una critica che non ha ancora imparato a essere Contro Sainte-Beuve (mentre Curzio, a proposito, fu un proustiano di prima fila e fin dalla prima ora negli anni Dieci, e molto tempo non perduto dopo rese omaggio alla Recherche intitolando il primo capitolo di Kaputt proprio «La côté des Guermantes»).
Come accadde a Gadda, la critica trombona tutt’al più lo inseriva nella categoria della «bella prosa», e questo mentre Curzio, l’uomo in rivolta, l’avanguardista indomabile, imperversava in mezza Europa, avendo scelto Parigi come patria intellettuale, la rivoluzione surrealista come patria dell’immaginario, e lo Zarathustra di Nietzsche come padre di ribellione antireligiosa.
Ma cosa, nonostante la bellezza e la forza della sua opera, da Kaputt a La pelle all’eversivo Tecnica del colpo di Stato (perseguitato tanto dai comunisti quanto dai fascisti e dai nazisti), non si perdona a Curzio, quando perfino scrittorini come Cassola o Pratolini o Siciliano hanno un altarino e un cero nel pantheon della letteratura italiana? Mentre all’università ci fanno studiare Il mio Carso di Scipio Slataper neppure fosse Céline? (e, tra l’altro, mettiamolo a confronto con Viva Caporetto!, stampato nel 1921 e ritirato dalle autorità nel 1921 e ristampato da Curzio ancora nel 1921, stavolta intitolandolo La rivolta dei santi maledetti, e nuovamente sequestrato e nuovamente ristampato nel 1923 e nuovamente sequestrato e... ah, che tempi!).
Ma chi ha paura di Curzio Malaparte? Smascheratore della profonda ipocrisia della casta intellettuale e politica italiana ed europea, ancora oggi non gli si perdona di non essere incasellabile nei buoni o nei cattivi, negli uomini o no, né di aver sfatato molti miti che, pur tenuti su con i fili della casta dei mediocristi sociologici, devono restare intoccabili (ecco perché fa comodo al professor Asor Rosa confonderlo con Curzio Maltese). A cominciare dai cosiddetti scrittori «antifascisti», quando in realtà, durante il fascismo, di veri antifascisti non ce n’era mezzo (senza risparmiare se stesso: «Anch’io fui, naturalmente, fascista, poiché allora era fascista chiunque ora, per le medesime ragioni, è antifascista: solo che io ero fascista con la ”mentalità protestante”», e infatti pagò molto più, sotto il fascismo, di tanti antifascisti riciclati nell’antifascismo una volta caduto il fascismo).
Non si salva Alberto Moravia (Gli indifferenti non è mai stato un romanzo antifascista, ma il romanzo della «decadenza del fascismo», non per altro fu pubblicato in pieno fascismo), né «il fascistissimo» Elio Vittorini («tant’è vero che Conversazione in Sicilia, apparso in Italia durante la guerra, fu poi edito e tradotto in Belgio da una casa editrice che i nazisti avevano creato in Belgio per far propaganda nazista»), né Corrado Alvaro («fu detto scrittore antifascista senza aver mai scritto un rigo antifascista»). E non si perdonerà mai a Curzio di essere stato uno scrittore libero e ingovernabile, peccato imperdonabile tra «i bacchettoni, i barbogi, i parrucconi di tutta Italia», questa Italia barbara perché incurabilmente conformista.
Massimiliano Parente