Nicola Lagioia, il Riformista 31/1/2010, 31 gennaio 2010
C&M, LA COPPIA CHE HA RISCRITTO I TESTI SACRI- Se con Cinico tv Ciprì e Maresco ci parlano di come diventeremo (e di come, nel profondo e nell’inconfessabile privato, forse in parte siamo già ma non vogliamo ammettere di essere, il che ci umilia e ci distrugge come non sono umiliati né distrutti gli eroi della trasmissione), e con i documentari ci danno la dimostrazione dei pochi gradi di separazione che intercorrono tra noi e l’apocalisse, sono i film a rappresentare il vero affondo
C&M, LA COPPIA CHE HA RISCRITTO I TESTI SACRI- Se con Cinico tv Ciprì e Maresco ci parlano di come diventeremo (e di come, nel profondo e nell’inconfessabile privato, forse in parte siamo già ma non vogliamo ammettere di essere, il che ci umilia e ci distrugge come non sono umiliati né distrutti gli eroi della trasmissione), e con i documentari ci danno la dimostrazione dei pochi gradi di separazione che intercorrono tra noi e l’apocalisse, sono i film a rappresentare il vero affondo. Con Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro, la poetica degli unici autori che probabilmente sono riusciti a fare arte con il cinema italiano degli ultimi anni si rivela prepotentemente (il primo film), arriva a un momento di vera perfezione (il secondo) e si rimette in discussione (l’ultimo). Ma soprattutto, per il discorso che qui stiamo facendo, i film di Ciprì e Maresco mostrano – come non avevano potuto ancora fare le strisce televisive (mancava il tempo per l’organizzazione drammaturgica) e i documentari (troppo ancorati all’al di qua del mondo sublunare) – che la presunta forza iconoclasta dei loro autori è tutt’altro che un semplice caricare a testa bassa. Al contrario, è una narrazione vasta e coerente (come può fare solo chi si è a lungo interrogato sulla storia della nostra cultura), violenta e ”antipsicologica” (il violento, monolitico indagare il ceppo umano tutto intero che fu di Beckett, di Kafka, e prima ancora di Shakespeare), avente come proprio oggetto non una categoria o peggio ancora un’ideologia di uomo – vale a dire i forzieri dentro i quali l’espressione artistica cessa di respirare – ma il mistero (meravigliosamente inesauribile e ridicolo) dell’essere-umano-nel-mondo, ovvero l’obiettivo a cui ogni vero artista ha sempre puntato. In tutti e tre i film ci sono i personaggi di Cinico tv, che nella trasmissione interpretavano il lato estremo dei se stessi reali comparendo quasi sempre con i loro veri nomi e cognomi, e che qui – come per un definitivo attraversamento – interpretano in tutto e per tutto, anche nominalmente, degli alter ego. Nello Zio di Brooklyn una famiglia sottoproletaria di cinque fratelli è costretta da un gruppo di mafiosi a ospitare in casa propria uno ”zio” enigmatico e silenzioso, mentre Il ritorno di Cagliostro è la storia degli sgangherati fratelli La Marca, sorta di Ed Wood palermitani che, col beneplacito del monsignor Sucato, fondano una catastrofica casa di produzione che nei loro sogni vorrebbe essere l’inizio di una Hollywood siciliana. Ma è sul secondo lungometraggio che ci concentreremo, Totò che visse due volte, vero capolavoro del duo palermitano e pietra dello scandalo (idiota e assurdo) in cui venne gettato dalla Commisione censura, che prima cercò di bloccare il film in quanto degradante «per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità» con particolare disprezzo per il «sentimento religioso», e poi contribuì al processo per vilipendio alla religione cattolica dal quale, al pari del Pasolini della Ricotta, Ciprì e Maresco furono assolti. Il film era effettivamente scandaloso, ma per i motivi opposti. In un mondo – soprattutto quello clericale italiano, con il suo enorme stuolo di leccapiedi laicissimi e santimoniosi al seguito – che ha cessato di interrogarsi sulla forza, la bellezza, il mistero del messaggio evangelico, niente risulta più provocatorio e scandaloso di chi questa indagine tenta invece di farla. Per un sentimento religioso autenticamente vivo, la blasfemia in formato audiovisivo dovrebbe essere rappresentata dai filmetti agiografici sui papi e sui santi che cercano di contenere nel proprio incubatoio arido e volgare (e dunque di neutralizzare, di distruggere) il messaggio evangelico. I primi che avrebbero dovuto levarsi in difesa di Totò che visse due volte sono dunque proprio il Vaticano e i giornali cattolici. Attaccandolo, o rimanendo in silenzio, dimostrarono un intimo disprezzo per il mistero della fede. L’universo cattolico, vale a dire, si esibì ancora una volta nel proprio feroce anticristianesimo. Il film è diviso in tre episodi, «più che tre stazioni della via crucis, tre pale d’altare», le ha definite Emiliano Morreale. Nel primo episodio – un omaggio proprio alla Ricotta di Pasolini – Paletta, disperatamente alla ricerca di una donna, ruba da un ex voto la collana deposta per grazia ricevuta da un boss mafioso allo scopo di pagarsi un rapporto sessuale con la prostituta Tremmotori. Il secondo episodio è la storia di Fefè, ributtante e avido omosessuale di mezza età che si reca alla veglia funebre del suo amante Pitrinu, dalle cui dita di cadavere sottrae un anello da sempre desiderato (le atmosfere da Elsinore in Trinacria e brughiere macbethiane traslate in Sicilia che pervadono questo episodio contribuiscono tra l’altro a dipanare almeno in parte il mistero dell’assenza di attrici femminili nelle opere di C&M; non di personaggi femminili, attenzione, che invece ci sono, ma sono sempre interpretati da maschi. Esibiscono cioè – come dimostra vividamente la scena dello zombie che vaga per il cimitero alla ricerca della sua fossa – il richiamo ai momenti più violenti, sensazionali e provvidenzialmente ”rozzi” del teatro elisabettiano, Shakespeare in primis, che in questo modo entra a far parte degli spiriti tutelari che vegliano sul duo di Palermo). Ma è il terzo episodio a portare a compimento questa ardita, ma mai spericolata interpretazione dei Testi sacri. Qui, con la scorta dei due episodi precedenti, viene esplicitamente ri-raccontato il Nuovo Testamento: in una Palermo desertificata torna il Messia, Totò, e ci ritorna nel bel mezzo di una guerra tra mafiosi. Viene prima costretto dagli uomini di un clan a resuscitare il ”picciotto” Lazzaro (disciolto nell’acido dai rivali) e poi, tradito dal gobbo Giuda – al quale sono stati promessi i favori della prostituta Maddalena ”, viene a sua volta giustiziato nell’acido dal secondo Totò, cioè l’omonimo boss del gruppo avverso a quello a cui apparteneva Lazzaro. Per toccare soltanto alcuni punti, tra i possibili, in grado di testimoniare la bellezza e la forza di questa ricerca, diremo che: 1) Gesù in Totò che visse due volte non è un trentenne, ma un vecchio dalla barba bianca, coi tratti somatici duri e spigolosi. Sembrerebbe un Messia che – proprio perché fuori tempo massimo nelle sue spoglie mortali – ha avuto il modo di riflettere sulla propria intera parabola (avvento, crocifissione, resurrezione) senza esserne mai venuto completamente a capo. un Gesù potentemente ebraico e siciliano al tempo stesso, molto più vicino a quello di Marco (un Messia irascibile, umano, incline all’ironia se non al sarcasmo) che a quello degli altri evangelisti. Tanto umano da non capacitarsi – al pari del Cristo sulla croce che teme l’abbandono del Padre – di come possa essere il figlio di Dio. Tanto che, quando riesce a resuscitare Lazzaro, il primo a esserne stupito è proprio lui. inoltre un Cristo che sente il peso e il mistero della propria missione (emblematico il momento in cui, interrogato brutalmente dallo speculare boss mafioso prima di finire nell’acido, rilascia i muscoli del viso, si fa quasi tenero, alza gli occhi al cielo e dice: «Che vuoi da me, sono stato incaricato…»). soprattutto però un Cristo che – appresa nella propria peregrinazione bimillenaria la dura lezione del ”Grande Inquisitore” di Dostoevskij – sa benissimo che, anche dopo il suo avvento, il mondo resterà una landa veterotestamentaria, dominata da vendetta, violenza e mancanza di perdono. Tanto è vero che: 2) Il primo pensiero di Lazzaro, una volta resuscitato, non è quello di riconciliarsi con il genere umano, ma di vendicarsi dei propri assassini: senza neanche ringraziare il Messia o soffermarsi a riflettere sul proprio essere tornato dalla morte, al grido di «vendetta, vendetta!» si lancia subito verso quelli che, ancora più di prima, reputa i suoi nemici. I clan mafiosi, a loro volta, non si limitano a rappresentare il problema storico o sociale della Sicilia, ma personificano il potere e la violenza che stringono il mondo intero sin dalla notte dei tempi e – prima ancora della caduta dell’uomo edenico – gli Avversari per antonomasia. Anche qui, è emblematico l’incontro tra i due Totò, ognuno costretto proprio malgrado a interpretare il ruolo che fu dei loro padri in spirito (Totò-mafioso: «Ma noi due non ci siamo già visti?», e Totò-Cristo: «Può essere…»). 3) Disciolto nell’acido il Messia – restituito cioè al suo mistero – sulla croce centrale (le laterali sono occupate dal Paletta e dal Fefè dei due episodi precedenti) viene sollevato Minico, un malato di mente. Più che di una banale sostituzione credo si tratti dell’ultima finale transunstanziazione. Troppo carico di dubbi, intelligenza e troppo consapevole per essere anche del tutto innocente, il Messia-Totò si trasforma nel capro espiatorio perfetto. Talmente innocente e puro, adesso, da non essere riconosciuto nemmeno più dai suoi (i due ladroni lo guardano stupiti, le donne-maschi vestite di nero ai piedi della croce si domandano: «Ma chi è questo?»). 4) Seppure brutti, sporchi e in via di disfacimento, gli indistruttibili personaggi di Cinico tv prestati a questa indagine sul sacro, sono infine gli ultimi depositari del peccato e della grazia. Proprio perché accettano (a differenza nostra) di esistere dall’altra parte, hanno la possibilità (a noi negata) di vivere pienamente il conflitto, le pulsioni e la sempre differita – ma proprio per questo, sia pur kafkianamente, reale – possibilità di salvezza. Sempre che esista, il Regno dei cieli da cui ci siamo autoespulsi è conficcato dentro di loro. E Totò che visse due volte è, semplicemente, un capolavoro della cinematografia contemporanea.