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 2010  febbraio 05 Venerdì calendario

NEL CUORE FERITO DELLA TOYOTA/1

NEW YORK No, la Prius no.E inveceè proprio così: anche la regina delle ibride, l’auto-culto degli ambientalisti californiani, è coinvolta nell’immane disastro della Toyota. Prima auto a motore misto (elettrico e combustione), un milione e duecentomila vetture vendute nel mondo di cui metà negli Usa. Un ecogioiello, simbolo della Green Economy, una prova tangibile del primato giapponese nelle tecnologie verdi, uno schiaffo della Toyota all’America energivora ed obsoleta dei Suv. Ma forse la piccola meraviglia è un’assassina potenziale. Da ieri l’authority per la sicurezza stradale americana ha dovuto lanciare l’allarme per i freni difettosi. Onta suprema: la più ambientalista delle città americane, San Francisco, deve togliere le Prius dal parco-auto City Car Share, il servizio di vetture pubbliche in affitto lanciato per ridurre consumi e inquinamento.

Una lunga catena di scandali sta distruggendo l’immagine - e il bilancio - della più grande casa automobilistica giapponese e mondiale. Un tracollo così repentino, brutale, spettacolare, da sembrare più un evento geofisico (terremoto, tsunami) che una vicenda economica. Grandioso. Quasi misterioso. Come si fa a passare in così poco tempo da una fama tutta fondata sulla qualità, l’affidabilità, la sicurezza, a questa spaventosa sequenza di incidenti dovuti a gravi difetti di fabbricazione? In America l’invasione della Toyota è andata avanti implacabilmente per anni, di pari passo con la decadenza delle tre sorelle di Detroit (Gm, Ford, Chrysler). L’una vinceva grazie ai difetti delle altre. Il "patriottismo" del vetero-operaio Clint Eastwood nel film "Gran Torino" è beffato dalla scelta del figlio che guida un Suv Toyota. Da anni milioni di americani avevano abbandonato il prodotto nazionale, sedotti non solo dai prezzi inferiori delle giapponesi ma soprattutto dalla nomea di una qualità impeccabile. Lo choc più angoscioso è arrivato due giorni fa con la pubblicazione sul New York Times del testo di una chiamata d’emergenza al 911, il telefono di polizia e ambulanze.

La registrazione è datata 28 agosto 2009, ore 18.35. Al volante di una Toyota Lexus Es350 c’è un guidatore esperto: è un agente della stradale fuori servizio, in gita con moglie figlia e cognato sull’autostrada 125 a San Diego, California. La voce di Mark Saylor tradisce il terrore: «Il pedale dell’acceleratore è bloccato, non c’è modo di frenare, si avvicina l’incrocio, preghiamo.... «.

Poi il rumore dell’urto. La Lexus si schianta contro un Suv, va in fiamme, a bordo muoiono tutti.

I dirigenti della Toyota, questo è più grave, sapevano: da mesi si accumulavano le proteste dei clienti per quel difetto dell’acceleratore impazzito. Allarmi ignorati, sottovalutati. Ora l’indignazione e la paura giustificano anche qualche esternazione di troppo. Come l’annuncio inopinato del ministro dei Trasporti, Ray LaHood, che l’altro ieri ha improvvisamente diramato un appello a tutti i proprietari di Toyota: «Evitate di guidare quelle auto, lasciatele a casa». Un eccesso di zelo, una precauzione impossibile: decine di milioni di americani resterebbero appiedati. Ma dà il senso del panico.

La gravità dei difetti, la frequenza degli incidenti, l’ampiezza della gamma coinvolta: c’è di che perdere la testa. Nelle condanne dei politici naturalmente può giocare anche un sottile godimento nazionalista. Dopotutto la Toyota fu il simbolo industriale più potente della superiorità asiatica, la protagonista di una vera umiliazione del capitalismo americano. Colpita ora dalla "maledizione del primato": l’epidemia dei difetti di fabbricazione è iniziata poco dopo lo storico sorpasso sulla General Motors, che ha dato a Toyota la leadership mondiale. Ma il godimento nazionalista è fuori luogo perché in realtà la Toyota oggi ha numerose fabbriche negli Stati Uniti, è un produttore nazionale con più occupati della Chrysler.

Resta il giallo della irresponsabile lentezza di riflessi del management. Questo accade in un’azienda che da decenni viene studiata dalle concorrenti, e in tutte le facoltà di economia, come il modello dell’èra postindustriale e post-fordista. Con una cultura fatta di tre eccellenze. La qualità totale: attenzione maniacale ai dettagli. La produzione leggera: più efficiente della vecchia catena di montaggio.

E il "just-in-time", metodo che ha ridotto le giacenze nei magazzini e velocizzato l’approvvigionamento di componenti. E’ proprio in questo trittico strategico che si è diffusa una metastasi. Le fabbriche Toyota vantano con orgoglio l’introduzione della "Andon Cord": così è chiamata la corda d’emergenza con cui anche l’ultimo degli operai può bloccare la produzione per segnalare un difetto, scatenando l’intervento immediato del management. Perché non ha funzionato per migliaia e migliaia di errori gravissimi, dalle conseguenze mortali? Gli esperti chiamano in causa l’ipertrofìa del gruppo. Troppo grande, ha perso la capacità di controllo di un tempo. Ha esagerato nell’outsourcing, soprattutto dei componenti elettronici. Infine c’è quella sindrome che gli americani chiamano "complacency": l’eccesso di fiducia in sé, l’adagiarsi sugli allori, nella convinzione di una superiorità incontrastata. Alla fine, la Toyota affonda perché è vittima del culto di se stessa.