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 2010  febbraio 04 Giovedì calendario

C’ UNA MOSSA CHE SALVA ALCOA

Non sarà probabilmente un nuovo sconto sull’energia a trattenere Alcoa dallo sbaraccare gli impianti di Portovesme e Fusina, come sta tentando di fare il governo italiano. Per capire quello che accadrà è più utile ascoltare (...) l’intervista concessa alla Cnbc da Klaus Kleinfeld, presidente di Alcoa: «Poco prima di Natale», spiega il manager, «abbiamo firmato un accordo con il nostro partner saudita per un investimento da 10,8 miliardi di dollari nella costruzione di un impianto integrato per la produzione di alluminio in Arabia Saudita, al livello più basso della curva dei costi». La cifra è imponente, la scelta chiara: Alcoa in Arabia, avrà infrastrutture e miniere di bauxite che l’Europa non è in grado di fornire. Come spiega una newsletter del settore, il Metal Bullettin del 28 gennaio scorso, con la scelta araba l’Alcoa chiuderà sia in Italia che in Spagna (tre stabilimenti a San Ciprian, a La Coruna e Aviles). Ufficialmente la motivazione è quella degli sconti energetici che la Ue ha bloccato sia per l’Italia che per la Spagna, ma la verità è che non c’è prezzo dell’energia che possa essere competitivo con l’opzione araba, ormai già scelta.
Opzione araba
Al governo italiano restano poche strade. La prima è quella di impedire agli americani di chiudere tutto da un giorno all’altro dopo avere comunque ottenuto quasi un miliardo di aiuti sotto forma di sconti energetici (miliardo che è bene ricordarlohanno pagato tutti i consumatori di energia in Italia con un sovrapprezzo sulla bolletta).
Per impedire almeno i modi così bruschi, l’Italia deve escutere immediatamente, anche chiedendo il sequestro conservativo degli impianti, quei 270 milioni che la Ue impone ad Alcoa di restituire in quanto «aiuti illegittimi». Di fronte alla ragione dei soldi gli americani almeno tratteranno, non scapperanno come ladri e consentiranno di trovare con più calma una soluzione per i lavoratori messi sulla
strada. La crisi Alcoa che ha ragioni particolari non è la prima né sarà l’ultima a deflagrare da qui ai prossimi mesi. C’è il caso Fiat a Termini Imerese. Se ne apriranno altri con gruppi nazionali e internazionali. Quali argomenti avrà il governo italiano da mettere sul tavolo nelle varie trattative? Pochi, quasi nessuno. Oggi le leve della politica economica e della politica industriale non sono a Roma, ma a Bruxelles.
Quando scoppiò la crisi finanziaria internazionale l’Unione europea accettò di fatto di cedere temporaneamente parte di quelle leve agli stati nazionali, più liberi di gestire in via straordinaria il rapporto deficit/pil senza più gli obblighi dei parametri di Maastricht.
Miti caduti
Oggi la crisi non è più finanziaria, ma industriale. E agli stati nazionali servono altre leve in mano, con un allentamento dei parametri sugli aiuti di Stato. In questo anno e mezzo per altro miti come quello del libero mercato e religioni come quelle della libera concorrenza hanno subito qualche ammaccatura, e anche qualcosa in più. Non è necessario abdicarvi, ma allentare quella rigidità sì, altrimenti dalla crisi sarà difficile uscire. Ci sono paesi come la Francia che gli aiuti di Stato offrono da tempo alle proprie grandi imprese. Altri come la Finlandia oggi in pressing sulla Ue perché ha bisogno di salvare i suoi grandi gruppi di cantieristica. L’Italia non sarebbe quindi sola volesse aprire questa partita politica a Bruxelles: basterebbe una moratoria di un anno o due, non di più. E sarebbero d’accordo molti altri paesi. Meglio giocarsi una partita così che andare di volta in volta a chiedere eccezioni, magari inutili come per l’Alcoa di turno.
Franco Bechis, Libero 4/2/2010