Nouriel Roubini, Arnab Das, Il Sole-24 Ore 4/2/2010;, 4 febbraio 2010
I MEZZOGIORNI D’EUROPA E LA POLITICA CHE NON C’
Si sarà anche scongiurata una seconda Grande Depressione, ma la crisi è ancora lontana dall’essere finita. Il credito è limitato e il contagio si va diffondendo a chi è maggiormente indebitato: le famiglie oberate dai mutui (Islanda, Stati Uniti, Regno Unito, Spagna, Irlanda, Europa Centrale e Orientale), le banche (Islanda, Stati Uniti, Unione Europea, Russia e paesi dell’ex Unione Sovietica), gli indebitamenti semi-sovrani (Naftogaz in Ucraina e Dubai World); e ora Grecia e altri anelli deboli della catena nella zona euro.
Era da tempo che la Grecia era a rischio, a causa del pesante indebitamento pubblico e della mancanza di competitività. Ma i problemi che l’affliggono non sono unicamente suoi: dalla loro soluzione dipendono infatti i destini dei paesi vicini, della zona euro e forse della stessa Unione Europea.
L’indisciplina fiscale e la mancanza di competitività sono strettamente collegate tra loro in tutto il Sud dell’Europa. L’accesso all’euro e le "convergenze commerciali" dei mercati al rialzo spinsero i rendimenti obbligazionari di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna verso i bund tedeschi. Il conseguente boom creditizio ha sostenuto i consumi, ma occultando un’inflazione salariale che ha annullato la crescita della produttività e reso i prezzi della Grecia non competitivi sui mercati tradizionali d’esportazione.
Nel frattempo, l’eccesso di burocrazia e la rigidità dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi hanno scoraggiato gli investimenti in settori ad alto valore aggiunto, malgrado salari ben al di sotto della media Ue. Il risultante mix malsano di forte disavanzo delle partite correnti e deficit di bilancio ha portato ad aumentare considerevolmente l’indebitamento con l’estero. Infine, un ragguardevole apprezzamento dell’euro nel periodo 2008-2009 ha aggravato tutti questi problemi.
Man mano che i rendimenti obbligazionari sono andati aumentando, la Grecia e i paesi in condizioni analoghe hanno dovuto effettuare scelte critiche. La decisione migliore sarebbe stata quella di seguire l’esempio di Irlanda, Ungheria e Lettonia con un piano fiscale credibile e molto severo di tagli a quelle spese che il governo è in grado di controllare, invece d’improvvisi rialzi delle tasse e chiusure delle scappatoie dipendenti da una storica scarsa propensione a conformarsi alle regole. Ciò avrebbe potuto consentire una svalutazione interna con tagli incisivi dei salari reali e riforme strutturali utili ad alimentare la competitività, come ha fatto la Germania dai tempi della sua unificazione.
La soluzione più semplice ora sarebbe ricorrere all’ingegneria finanziaria e a rabberciamenti fiscali, ritardando l’aggiustamento. In questo scenario, l’accesso ai mercati alla fine andrebbe perso, forse entro la metà del 2010. A
quel punto la Grecia dovrebbe rivolgersi agli altri stati membri per ottenere prestiti diretti (negati, almeno finora); al Fondo monetario internazionale (esclusi, al momento); o a creditori atipici, quali per esempio la Cina (respinti). In alternativa, potrebbe procedere a una svalutazione, andare in default e rinominare i propri debiti in "nuove dracme", seguendo il modello argentino (inimmaginabile).
Un piano d’austerità credibile potrebbe riattivare la solidarietà nei paesi dell’Unione Europea che stanno procedendo a manovre correttive, migliorare la retorica della Bce e dei principali stati membri, e riportare con i piedi per terra gli spread dei bond greci. Questo approccio sta dando i suoi frutti in Irlanda, dove gli spread sono esplosi quando l’indebitamento pubblico è salito alle stelle per salvare le banche, ma sono ridiscesi quando la spesa pubblica è stata decurtata del 20%. In ogni caso non si tratta di una passeggiata: il Portogallo da un decennio intero sta deflazionando per alimentare la competitività. Le medicine amare è meglio buttarle giù velocemente.
Teoricamente, la manovra correttiva della Grecia potrebbe essere sostenuta e supportata da un consistente programma dell’Fmi studiato per scongiurare un peggioramento dell’indebitamento pubblico e delle banche durante i duri periodi che ci saranno ancora da affrontare. In un piano unicamente europeo, la Commissione Ue sorveglierebbe da vicino l’aggiustamento e la Bce presterebbe i fondi.Né l’una né l’altra impongono condizioni ai propri membri, cosa che l’Fmi fa di regola. Ma l’Fmi è da escludere, perché sarebbe un segnale di debolezza. E un piano soltanto europeo può essere considerato una sorta di scappatoia da parte delle parti interessate, considerati i rischi di fallimento per l’Europa. Non prendere i duri provvedimenti necessari attirerebbe l’attenzione su una scomoda verità storica: nessuna unione valutaria è sopravvissuta senza un’unione fiscale e politica. Il contrasto tra la zona euro e gli Stati Uniti diverrebbe ancora più netto. Molti stati americani sono anch’essi in crisi fiscale, ma i problemi locali lì possono essere risolti a livello federale. Qualora i trasferimenti dovessero risultare inefficaci, un capitolo del codice fallimentare prevede l’intervento dei governi subfederali. La zona euro, al contrario, non ha un meccanismo analogo di condivisione degli oneri.
La storia di altri paesi in difficoltà della zona euro differisce soltanto per entità, non per principio. Tutti sono fortemente indebitati: prima fonte del contagio finanziario. La Spagna, come l’Irlanda, ha una considerevole esposizione pubblica nel settore bancario, risultante dall’indebitamento per i mutui. Il suo modello di sviluppo - nel quale il settore immobiliare in ambito residenziale è sostenuto da un boom dei prezzi degli immobili - è morto e sepolto.
Anche la Spagna necessita di consolidamento fiscale e di riforme strutturali se intende ripristinare la sostenibilità del debito, rafforzare la crescita e ridurre il suo tasso di disoccupazione arrivato al 20%. Il governo italiano è anch’esso fortemente indebitato, quindi deve a sua volta tagliare le spese e riguadagnare competitività. Il Portogallo necessita urgentemente di riforme strutturali per ristabilire il suo dinamismo economico e il suo benessere fiscale.
La Grecia, quindi, è la linea del fronte di una battaglia più grande, che si sta combattendo per restare sulla strada imposta dall’Unione monetaria europea. L’impegno politico nei confronti della zona euro di ogni paese che si trova con la pistola alla tempia è incrollabile: è sufficiente osservare i consistenti tagli al bilancio dell’Irlanda, la dolorosa deflazione portoghese, il brusco aggiustamento di paesi aspiranti a entrare nell’euro quali Lettonia o Ungheria. La mancanza di un’unione politica e fiscale, la limitata mobilità della manodopera rispetto ai liberi spostamenti di capitale rendono questi aggiustamenti decisivi per la vitalità economica a lungo termine della zona euro.
Idealmente, si dovrebbero sviluppare regole ufficiali per la ripartizione delle responsabilità fiscali per dare efficacia alla clausola di non salvataggio di un paese, quali i meccanismi di ristrutturazione del debito sovrano della zona euro. In caso contrario, i dubbi sulla sostenibilità dell’Unione monetaria europea si ripresenteranno a ogni recessione. E prima o poi questi dubbi potrebbero essere confermati.