Bill Emmott, Corriere della Sera 04/02/2010, 4 febbraio 2010
MA PECHINO NON COSì FORTE COME SEMBRA
Siamo ormai abituati a restare perplessi di fronte alle dichiarazioni ufficiali che vengono dalla Repubblica popolare cinese. Anche se nell’ultimo decennio i cinesi sono diventati parecchio più sofisticati, spesso mantengono vistosi retaggi dell’era maoista, delle «tigri di carta» e dei «cani da guardia».
Ma quel che sembrava spiegare meglio la politica estera cinese era l’idea’ quasi un cliché’ che Pechino seguisse la massima che Deng Xiaoping, il grande leader degli anni Ottanta, aveva tratto da un antico detto cinese: «mentre stai costruendo la tua forza, tieni un basso profilo e nascondi gli artigli». Ciò era valido per gli anni Novanta e gran parte di questo decennio, ma i clamori che arrivano da Pechino fanno pensare che sia ormai superata.
Le grida più alte si sono levate nei giorni scorsi, prima in risposta alla vendita di armi a Taiwan da parte degli americani. Tali vendite, autorizzate almeno in linea di principio da un atto del Congresso del 1979, suscitano sempre reazioni ostili in Cina, ma questa volta la reazione è stata più violenta e aggressiva: non si è limitata a una rituale sospensione di contatti sul piano militare, come in passato, ma ha minacciato sanzioni contro società americane, un cattivo auspicio per la possibilità di arrivare a un’intesa su sanzioni contro l’Iran per contrastarne il programma nucleare. La Cina ha poi reagito aggressivamente all’annuncio che il presidente Obama avrà un breve incontro con il Dalai Lama, un altro tema su cui Pechino è tradizionalmente sensibile.
Questi episodi non sarebbero così significativi se non si inserissero in un quadro più ampio, iniziato con la linea dura tenuta dalla Cina alla conferenza di Copenaghen sul clima. In quella sede Pechino ha infatti posto il veto su ogni impegno a tagliare le emissioni di gas da parte dei Paesi in via di sviluppo, proponendo soluzioni molto più blande e generiche e ponendosi al centro di un’alleanza con Brasile, India e Sud Africa. A fianco di questi altri Paesi emergenti la posizione della Cina poteva apparire comprensibile, perfino ragionevole e allineata con gli interessi di altre economie in via di sviluppo. Finché non è scoppiata la guerra informatica.
Il terzo nodo conflittuale tra Cina e gli altri Paesi ha riguardato Internet. Se ne è parlato molto il mese scorso, quando Google ha annunciato che stava pensando di lasciare la Cina per gli attacchi informatici ai suoi server e servizi e-mail da parte di (supposti) hacker cinesi. Quel che è poi venuto alla luce è però che la guerra informatica cinese va molto al di là dell’ attacco a Google. Almeno 30 società americane sono state oggetto di attacchi come pure l’ufficio del primo ministro indiano e altri ministeri di quel Paese.
Per gli indiani si tratta solo dell’intensificarsi di tensioni già esistenti. La Cina sta aumentando le truppe schierate ai contestati confini con l’India, reagendo in modo sempre più duro alle dichiarazioni indiane sull’ Arunachel Pradesh e alle visite in quello Stato indiano, anch’esso oggetto di disputa, situato tra l’India e il Tibet.
Come si spiega questo aumento dell’aggressività cinese? Deriva da un cambiamento di politica della leadership? La risposta, per certi versi, è no: i recenti episodi potrebbero essere una semplice coincidenza. Infatti, assieme alla politica del basso profilo, nei due decenni scorsi la Cina ha seguito anche un altro principio: quando una questione toccava in modo chiaro e consistente i suoi interessi interni, soprattutto di stabilità e unità, Pechino ha sempre rigettato con forza ogni critica o tentativo di interferenza straniera. La sovranità è sacra. La maggior parte dei casi recenti rientrano in quest’ambito: Taiwan è un problema scottante di politica interna; Copenaghen e il cambiamento climatico sollevano questioni di politica interna e di sostenibilità economica; l’hackeraggio e la censura sono legati al controllo della politica interna a alle iniziative ufficiali, militari e di governo. In altre parole, gli attacchi a Google e altri sono argomenti sensibili perché discendono dalla politica ufficiale del governo cinese.
Questa risposta è però incompleta. Spiega l’atteggiamento cinese, non la violenza con cui si esprime né il comportamento sempre più provocatorio nei confronti dell’India. Un’ulteriore spiegazione della recente aggressività, anche nei confronti degli indiani, potrebbe essere che la Cina si sente ora forte e sicura di sé. sopravvissuta alla crisi economica globale, ha visto la sua crescita riprendere rapidamente quota mentre America ed Europa ne sono uscite indebolite. Si sente sicura e vuole avere un ruolo più decisivo negli affari internazionali.
Chi, in America e in Europa, si sente debole e non crede nella supremazia e nelle prospettive future di queste regioni è tentato di dare un’interpretazione di questo genere, e forse a ragione. Ma mi viene un dubbio. Perché osservando più da vicino l’economia cinese, si nota che non è poi così forte. La rinnovata crescita del Pil è dovuta a un forte aumento della disponibilità di denaro e di prestiti bancari, che inevitabilmente produrranno inflazione, come infatti si sta già verificando. La loro economia sembra forte, ma per mantenerla tale dovranno trovare un nuovo modello, una nuova fonte di crescita, ora che affidarsi alle esportazioni in America ed Europa non sembra più possibile. C’è quindi bisogno di un cambiamento, che potrebbe comportare una decisa svolta nella politica economica assieme a una drastica rivalutazione della moneta, in modo da riportare l’inflazione sotto controllo.
Se si comincia a vedere la debolezza interna dell’economia cinese, si capiscono meglio le ragioni della recente aggressività in politica estera. Si tratta di una tattica diversiva che vuole raccogliere consensi su temi nazionalistici in un periodo in cui dovrà esserci un doloroso cambiamento di rotta nella politica economica. Per l’Occidente questa è una spiegazione un po’ più rassicurante di quella che considera solo la maggior fiducia in sé e la volontà di affermarsi dei cinesi. Ma le conseguenze potrebbero essere assai poco confortanti: una Cina più nazionalista e protezionista è una Cina meno disponibile a cooperare. Almeno finché l’economia mondiale non raggiungerà un nuovo equilibrio.