Alberto Arbasino, la Repubblica, 4/2/2010, 4 febbraio 2010
STANDING OVATION PER WAGNER
La prima impressione fortissima spetta alla mancanza di pozzanghere. Davvero impressionante, per chi arriva da Roma dove ogni metro - anche nelle vie del cosiddetto shopping di lusso - è pieno di pozze e rappezzi e rattoppi e inciampi e dislivelli colmi d’acqua piovana stagnante con cicche di gomme sputacchiate e sigarette gettate e cartestracce. Allucinanti (per noi), queste distese bavaresi piatte di marciapiedi e selciati e sampietrini così livellati e uniformi: senza quegli avvallamenti e fanghiglie che denotano incapacità manuali insieme a ciniche speculazioni civiche. Senza nemmeno (malgrado la tradizionale meridionalità monacense, rispetto al Nord germanico) tutta la nostra animazione di ambulanti e accattoni e mutilati e giapponesi. E mazzi di rose rosse e ombrellini invasivi e bolle di sapone e girandole multicolori fra i diversamente pittoreschi disabili prodotti dalle mafie balcaniche sulle pozzanghere. E la popolazione romana non vedente e mai udente per secolare e accorta attitudine.
Non più grandi mostre, qua. E dunque, nemmeno quelle grandi file e code con incontri spesso più interessanti delle sale e sale da attraversare (come a Parigi) per raggiungere il bookshop dei ricordini. E nemmeno più grandi serate musicali dove il benemerito Maestro Sawallisch presentava ogni sera un’opera diversa dal repertorio classico e romantico, i capolavori minori di Richard Strauss, il monumentale Palestrina di Hans Pfitzner, lodatissimo da Thomas Mann però mai rappresentatoa Roma, benché ivi si svolga.
Scomparsi anche Sergiu Celibidache e Benedetti Michelangeli, e i loro mirabili concerti con Schumanne Ravel. Cosìi numerosissimi italiani festivi si dedicano piuttosto ai cori da stadio e birreria, o agli eleganti passeggi pedonali con liquidazioni.
Evidentemente finiti anche qui, i denari dei precedenti decenni. Solo una rassegna di lavori d’Alphonse Mucha, non interessantissima dopo tante. I grandi musei continuano a vivere sulle loro ricche glorie, e su esposizioncine piccole piccole.
Riposano quasi in pace i Nazareni preraffaelliti protetti da Re Ludwig I a Roma fra Villa Malta e il Caffè Greco. Quando non si usavano complessini come i Nettezza Urbana e i Violazione Commessa. Però si riverivano «le Sassonia»: principesse di Dresda che giacché cattoliche si accasavano tra la nobiltà romana portando in dote porcellane finissime. Evoca il nostro Sud ottocentesco il decoratore dell’Acquario di Napoli, Hans von Marées, con pescatori spogliati e spigliati affini alle pubblicità galeotte della moda odierna. E con raccoglitori d’arance o melarance molto meridionali e ideali e nudi, fra cespugli aggraziati e avvincenti. Ma negli spropositati spazi pubblici recenti per il Contemporaneo, vari artisti più o meno nuovi sembrano rifare in serie e in massa Bacon e Botero, Macke e Mondrian, Nolde e Nitsch, acrobati da circo e maschiette con sigarette e processioni di paesaggi nevosi da televendite.
Alla villa-museo costruita e ornata dall’artista Franz von Stuck intorno al 1900, in un ricchissimo Jugendstil neoclassico decadente, c’era una volta la sede monacense della Galleria del Levante, milanese in via Spiga. Dove Emilio Bertonati, con Giovanni Testori, scoprivano ed esponevano i Nuovi Realismi tedeschi e quelle Nuove Oggettività in odor di espressionismo: Dix, Grosz, Schad, Schlichter, Hubbuch, Radziwill, presto acquistati da Luisa Spagnoli, Kiki Brandolini, Vittorio Olcese...
Ora le sontuosissime sale iperdecorate con Palladi e Salomè e Meduse ospitano un’accurata retrospettiva del minore locale Karl Wilhelm Diefenbuch, un visionario notturno e teosofico attorno a quel fatale 1900.
Imponenti sfingi egizie e anche greche sopra grotte vertiginose e mari in tempeste crepuscolari fra il Monte Verità ad Ascona, Capri e Sorrento violentemente metafisiche... Insomma, quel "brodo" bavarese che nutrì gli infanti De Chirico e Savinio, condotti in quella Monaco da una madre evidentemente intelligentissima. Al culmine dei percorsi iniziatici, su un altarino di marmi multicolori e conchiglie da bancarella e bronzetti, la celebratissima pittura «Die Sünde» (poi anche in multipli e calendari), quale epitome bestseller del «Peccato» secondo l’estetica della più morbosa e scabrosa Belle poque.
Qui le dame d’una volta rammentavano una principessa viennese alle prese con Stuck, anche ritrattista "fashion" dell’alta società. (Donde i proventi). Lei, già abbastanza famosa quale pioniera dell’automobile.
(E l’istruttore: «Come vanno il suo cambio e il suo sterzo, altezza serenissima?». E lei: «Bene, grazie, signore. E la sua sposa, e i suoi piccini, come stanno?»). Il deferente ritrattista chiese come voleva il ritratto. E lei, a bassa voce: «Ohne Sünde». Cioè, ALBERTO ARBASINO senza peccato.
Un’altra signora, già abitante a Parigi, mostrava mestamente un mediocre ritratto di sua madre, appeso in un corridoio scuro. Siccome Boldini - da cui si servivano le damigelle alla moda - aveva la fama di zompare con aggiustamenti sulle signore e signorine in posa, suo nonno aveva preferito un artista più inoffensivo e scadente. «Così non abbiamo Boldini in casa».
Il Museo delle Antichità, di fronte alla Glyptothek, dove si stiracchia il voluttuoso Fauno Barberini, impeccabilmente espone la collezione ricchissima di James Loeb, erede bancario e industriale di una grande famiglia bavarese e americana.
E promotore della fondamentale «Loeb Library», coi testi e le traduzioni di tutti i classici greci e latini, con base a Londra e Harvard. Se ne trovava un buon assortimento alla Libreria Tombolini, romana.
Quante opere minori di Cicerone, rilegate in rosso.E qualche Giulio Cesare donato al coltissimo ambasciatore americano Max Raab, che ringraziò: «Bel pensiero, a Harvard mi sono laureato». La collezione di questo facoltoso Fondatore è sensazionale.
Morto nel 1933, ebbe la possibilità di acquisire enormi tripodi etruschi, importanti ori ellenici, specchi e monili e Poseidoni e Paridi e Antinoi e pugilatori e terracotte di Tangra e cammei.
In file di vetrine mirabili, con cataloghi impeccabili, imprese di beneficenza in varie direzioni.
Mappe e prospettive grandiose.
Tornano in mente certi scherzi.
Vecchie telefonate, e la cameriera che rispondeva: «La signora è nel pronao, ora scende dal podio, passa per la bifora, la vedo che sale per le gradinate, ora arriva!». E lei, ansante: «Scusate, scusate, non è una gran domus, ma ho dovuto attraversare tutto l’emicicloa piedi!». Qui invece la sola visitatrice è un’italiana coltissima su Marsciano e Pitigliano e Vulci.
Al teatro della Gärtenerplatz, ove si scoprivano operine rare di Offenbach e di Carl Orff, sorridendo alla pronuncia germanica di parole italiane come casino e Morgana e pagliaccio e tremolo, si potrebbe assistere sia a Una notte a Venezia sia a Morte a Venezia. Commedia e tragedia. Ma davanti alla più grandiosa pasticceria-salumeria, sulla principale piazza, torna il ricordo d’una formale colazione romana ove l’ospite mi posea fianco di una congiunta bavarese, avvertendomi che stava in campagna e non si interessava di musica né d’arte. Parlai di mangiare, e subito l’anziana signora s’illuminò: era per lei una festa, venire ogni sabato in città, in quel negozio di alimentari. E si divertiva a elencare le qualità di tè e caffè e formaggi nella sua spesa. Forse non a caso, nei sontuosi musei, sotto il titolo di «Vanitas» si raffigura un disordine di libracci scombinati. Ma per il Capodanno si annunciano festini scompigliati e scapigliati, fra Berlino e qui. Quasi tutti, programmaticamente, trasgressivi, alternativi, eccentrici.
Gli immancabili Anni Venti, con cerone e rossetto e riccioli biondi sotto il cilindro lucido. La Nona di Beethoven diretta da Barenboim con cena inclusa. Un Hey- Disco-Party con gastronomie d’avanguardia. Konzert zur Revolution. Theater Mobil. Familienbande. Reform/Revolte.
Knalle. Nostalgia marxista coi cibi dell’antica Ddr e degli altri paesi nel blocco sovietico. Un weekend di gala con quattro giorni di film corti, indie-rock, soul balcanico. Un «Glamours Exzess Cool» con dress-code «da Bohèmea Bizarr». Rockabilly, Ragtime, Parigi, Pop, Konzept anni Sessanta, Chic Anni Settanta, Buffet Anni Ottanta, Menu Anni Novanta, effetti pirotecnici virtuali...
Si sceglie il concerto dei Münchner Philarmoniker, diretti da Christian Thielemann. Ma anche qui al Gasteig le memorie esondano. Dopo un meraviglioso concerto di Celibidache, volendo risentirlo a una replica tutta esaurita, ho incominciato a sventolare qualche dollaro, come a Salisburgo. E una signora ungherese: «Non faccia come in Austria, qui non si usa, gliene cedo uno di mio marito al prezzo del botteghino». Torna in mente una voltaa Pratolino, con un vecchio signore francese che voleva rivedere la villa dopo mezzo secolo. Avevo raccontato che a Weimar, per vedere il Cranach nel duomo sempre chiuso (la Ddr era molto atea), facevo un po’ di Alberto Sordi col custode,ei dollari.E lui: «Faites l’Italien ici».
Il concerto è magnifico. Non un solito programma da San Silvestro. Una prima parte wagneriana, con l’ottimo tenore Robert Dean Smith: anche brani da Rienzi. (E per noi, evocazione delle fonti di «Salve dimora casta e pura» o «Un nido di memorie»). Poi, una Sinfonia italiana di Mendelssohn così appassionante che questo compassato pubblico fa addirittura una standing ovation dopo un primo tempo tutto folli saltarelli alla Berlioz. Ma anche questo Wagner pare attualmente giovanissimo. © Alberto Arbasino