Maria Giulia Minetti, La Stampa 4/02/2010, 4 febbraio 2010
ARTURO SCHWARZ: «NON CERCO OGGETTI E QUADRI, SONO LORO A VENIRE DA ME»
Dacché si entra nella casa milanese di Arturo Schwarz, ci si muove in una foresta collezionistica, in quell’ammonticchiarsi di oggetti tipico del raccoglitore mai pago che perde di vista la necessità di dare «aria» alle cose e invece le stipa sfruttando ogni spazio disponibile, sicché l’effetto di ognuna in quel mucchio s’annulla e diventa difficile identificarle, per rare e preziose che siano. Un collezionista al quadrato, lo diresti. Al cubo.
Macché: «Io non sono un collezionista. Raccolgo certe opere perché le amo, mi interessano e coincidono con la mia visione della vita. Il collezionismo, invece, la voglia di accumulare opere di un tipo o dell’altro solo per l’accumulo – l’accumulo delle migliori, l’incetta di tutte, la sfida con gli altri collezionisti… – non mi riguarda. Chi acquista cose che rispondono alle sue esigenze psichiche e intellettuali, invece, che sono il filo lungo il quale si svolgono le sue riflessioni, che confortano il suo modo di vedere il mondo… – gira gli occhi sui libri, i quadri, le sculture, gli oggetti artistici ma anche le cianfrusaglie che lo circondano ”, be’, chi agisce così non agisce da collezionista. Il suo è un percorso d’indagine, una via alla conoscenza».
Più semplicemente, forse, come ha scritto Walter Benjamin, «esistono molte specie di collezionisti; in ciascuno agiscono inoltre numerosi impulsi». Del resto, l’impulso conoscitivo che ha spinto e spinge Schwartz è analogo a quello dell’Eduard Fuchs «storico e collezionista» indagato da Benjamin, anche se Fuchs si muove in un’altra direzione. E a proposito di direzione, ecco un’altra particolarità del «soi disant» non-collezionista Arturo Schwartz: «Non sono io che cerco le cose che mi interessano, che vado verso di loro. Io non cerco nulla. Sono le cose che vengono da me».
Le cose che vanno da lui provengono da ambiti ben definiti: «La mia raccolta è estremamente specializzata» e interconnessi: «Confortano e sostengono la mia Weltanschauung». Sono oggetti dadaisti «perché Dada fa tabula rasa del senso comune, dice no all’autorità»; surrealisti «perché nell’orizzonte surrealista c’è la donna come essere supremo che dona vita e felicità»; tantrici (e nel tantrismo lui ravvisa punti in comune con la scienza alchemica e cabbalistica, altri perni dei suoi studi) «perché anche lì la donna è venerata in quanto portatrice di vita e felicità».
Risultato di queste passioni una collezione – pardon, una non-collezione – di opere che per alcuni anni, dal 1961 al 1975, ha fatto di lui uno dei nostri galleristi maggiori, quello che ha mostrato, spesso per la prima volta in Italia, oltre a Dada e Surrealismo, i nomi più importanti delle avanguardie storiche e i migliori delle avanguardie post-belliche. Ma la voglia di studio è più forte dei diletti espositivi. «Nel 1975 – scrive in una breve nota autobiografica in terza persona – chiude la galleria per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e all’insegnamento».
Impressionante la sua bibliografia saggistica, ma sterminata pure quella poetica. Tira fuori da uno scaffale il suo secondo volumetto di poesie, Avant que lo coq ne chante, pubblicato dal parigino Pierre Seghers nel 1951 (aveva 27 anni, era arrivato da poco in Italia dall’Egitto, dov’era nato da padre tedesco e madre italiana, ebrei entrambi. Oggi bandierine di Israele costellano tutta la sua casa); il libro è firmato Tristan Sauvage, «il mio pseudonimo d’allora», ricorda con un sorriso. In onore di Tristan Tzara? Il sorriso diventa una smorfia di feroce disprezzo: «Quell’agente della Ghepeù, non voglio nemmeno sentirne il nome!». Anarchico ma ammiratore di Trotsky (A spasso con Spinoza, Breton e Trotsky è il titolo della sua ultima raccolta poetica, stampata all’inizio di quest’anno), le rare defezioni staliniste in ambiente surreal-dadaista lo inferociscono. Non parlategli di Aragon!
Ripone il libretto in uno scaffale basso della sua sterminata, imponente biblioteca. Schiere di scaffali sopra e sotto il pianterreno, ambienti termoregolati, ordine cibernetico. Anche i quarantamila libri della sua biblioteca («Tutti esclusivamente relativi ai due, tre argomenti che mi interessano») si sono mossi per andare da lei? Non c’è stato bisogno di cercarli? «Eh, no. I libri li cerco, perché ce ne sono che mancano. E se mancano bisogna reperirli. Ma li cerco perché mi servono, non sono un bibliofilo. A me, dei libri, interessa quello che c’è dentro, le informazioni che ti danno. Mi vanno bene anche le fotocopie, guardi qua (mostra uno scartafaccio). Non amo i bibliofili, ma non ho niente contro di loro. Non ho niente contro nessun collezionista. Semplicemente il collezionismo non mi interessa, come le ho già detto. It’s not my cup of tea».
Senta, ma questa faccenda degli oggetti che la scelgono invece di essere scelti, che la cercano invece di essere cercati, come funziona, al di là degli enunciati paradossali, delle formule magiche? « semplice. Per esempio vado alla Fiera di Sinigallia (il mercato delle pulci milanese, ndr) e mi saltano agli occhi. Mentre altri non li vedono». Questi Duchamp, questi Man Ray, questi bronzi indiani del XIII, XIV secolo fa non credo vengano dalla Fiera di Sinigallia. «No, certo. Molti vengono da aste. Partecipo per telefono». Assomiglia molto a una ricerca, questa faccenda delle aste. «Ma no! Io non chiedo nessun catalogo, non mi informo delle date, dei lotti. Sono loro, Christie’s, Sotheby’s eccetera che mi mandano le informazioni. M’arrivano per posta. E io sfoglio, guardo. E vedo». Ha riflettuto su quello che dirà, da non-collezionista, all’incontro torinese sul collezionismo? «Per nulla. Ma so che a farmi le domande ci sarà Paolo Levi, un vecchio amico. Lui avrà pensato senz’altro a cosa chiedermi».