SANDRO VIOLA, la Repubblica 3/2/2010, 3 febbraio 2010
CHI VUOLE LA PACE - NON è
insignificante l’iniziativa del governo italiano di dichiararsi, nel contesto della visita di Berlusconi a Gerusalemme, il migliore amico d’Israele e un fermo oppositore dei progetti nucleari iraniani. La spinta americana per convincere israeliani e palestinesi a riannodare il negoziato di pace, sembra infatti esaurita. Com’era successo a tutti i presidenti degli Stati Uniti negli ultimi tre decenni, anche Barack Obama ha sbattuto il naso contro le resistenze aperte o dissimulate del governo Netanyahu, deciso come i suoi predecessori a non accettare intromissioni dall’esterno nel conflitto per la Palestina. Così, dopo dieci mesi di sforzi anche generosi, l’amministrazione americana dà l’impressione di aver tolto dalle sue priorità la questione israelo-palestinese. Non a caso, nel recente discorso di Obama sullo Stato dell’Unione il problema è stato clamorosamente taciuto. Che, quindi, due primi ministri europei, la signora Merkel e Berlusconi, si stiano tanto accalorando per dimostrare la loro solidarietà allo Stato ebraico, esprimendo allo stesso tempo la loro avversione verso le intenzioni di Teheran di dotarsi dell’arma nucleare, rappresenta un tentativo d’aprire all’Unione europea (di cui gli israeliani hanno sempre, e qualche volta a ragione, diffidato) uno spazio di movimento e di mediazione alla lontana nella questione mediorientale. E gli israeliani non avrebbero fatto al premier italiano l’accoglienza entusiastica che gli stanno facendo, se il governo di Roma non avesse dimostrato una decisa fermezza nei confronti di Ahmadinejad. Certo, sull’esito del tentativo conviene essere scettici. Se non è riuscito all’America, la potenza protettrice d’Israele, la fonte di massicci aiuti economici e militari, di far interrompere al governo Netanyahu le nuove costruzioni negli insediamenti ebraici dei Territori occupati (il segnale che i palestinesi chiedevano giustamente per tornare al tavolo delle trattative), è molto, molto difficile che l’impresa riesca agli europei trascinati dalla Merkel e da Berlusconi. Ma questo non toglie che il tentativo vada seguito con attenzione. Il punto tuttavia è che non solo Netanyahu, bensì la società israeliana nel suo insieme, non vedono oggi come necessario, e tanto meno urgente, l’approdo ad un compromesso con i palestinesi che serva a varare il progetto dei "due popoli, due Stati". Israele vive infatti il suo migliore momento dalla fine degli Ottanta, dallo scoppio della prima Intifada.
La sua sicurezza s’è enormemente rafforzata grazie alla costruzione del Muro (nessun attentato dal 2006), e alla micidiale operazione dell’anno scorso su Gaza, che ha diminuito del 90 per cento il numero dei razzi lanciati dagli integralisti di Hamas sul sud del paese. L’economia va a gonfie vele: la Borsa continua a crescere, il turismo tocca i picchi del 2000, il Fondo monetario prevede per quest’anno risultati molto migliori che nei paesi più sviluppati, la ricerca s’espande e infatti l’high-tech israeliano, in specie nell’ambito medico, è uno dei più richiesti nel mondo. L’interesse per la pace, e il peso del movimento pacifista, sono quindi andati scemando, di pari passo con lo sgretolamento dei partiti di sinistra.
Così, quando un israeliano noto e stimato come lo scrittore David Grossman, cerca d’organizzare una manifestazione di "Pace adesso" contro l’indebito sfratto dei palestinesi dalle loro case di Gerusalemme Est,a seguirlo sono 150-200 persone, non di più.
Mentre le manifestazioni dei coloni, le loro prese di possesso di nuove colline della Giudea, mobilitano migliaia di fervorosi simpatizzanti senza che il governo, alla pari dei governi precedenti, tenti di scoraggiarle, per tema d’uno scontro interno con i nazionalisti-religiosi. Benyamin Netanyahu e il suo governo di destra-estrema destra, sono popolari, con esiti dei sondaggi che erano mancati dagli anni di Sharon. E questo per due ragioni: la prima è che a credere nella reale possibilità della pace, sono restati soltanto il 20 per cento degli israeliani; la secondaè che il braccio di ferro tra Obama e Netanyahu, che nell’estate-autunno dell’anno scorso aveva fatto temere alla maggior parte degli israeliani un cedimento del loro governo davanti alle richieste di Washington, si è per ora risolto a favore di Netanyahu. Quel che serve ad una società gelosa della propria indipendenza nazionale (e inoltre seriamente minacciata dai piani nucleari del regime di Teheran) per concludere che i governi d’Israele possono tener testa persino alle amministrazioni americane. In una situazione come questa, al momento senza spiragli per un riavvio del negoziato coni palestinesi, l’ingresso sulla scena della Merkele di Berlusconi (accompagnato, come s’è detto, da un indurimento delle rispettive posizioni nei confronti dell’Iran) rappresenta quanto meno un tentativo di smuovere le acque, aggiungendo due nuove presenze a quelle sinora coinvolte nella disputa.
Due presenze anti-Teheran e pro-Israele, così da ottenere l’assenso israeliano alla loro entrata in scena. Quanto ai risultati che ne potranno scaturire, conviene ricordare che Obama e il suo inviato in Medio Oriente, George Mitchell, hanno ottenuto in quasi un anno di continue pressioni soltanto il consenso di Netanyahu (per ora puramente verbale) alla formula dei "due Stati", e la sospensione per dieci mesi di nuove costruzioni in Cisgiordania. Sospensione in buona parte teorica, visto che in Cisgiordania si stanno portando a compimento un paio di centinaia di unità abitative le cui fondamenta erano già state gettate prima dell’impegno a fermare le costruzioni, mentre a Gerusalemme Est se ne stanno costruendo circa settecento.
Se intendono dunque affiancare gli americani negli sforzi per un nuovo negoziato israelo-palestinese, la signora Merkel e Berlusconi (ambedue silenti durante i terribili raids aerei dell’anno scorso su Gaza) non potranno limitarsi a dichiarare la loro amicizia per Israele. Né basterà usare le frasi generiche pronunciate sinora sulla necessità che il governo Netanyahu metta davvero fine all’ampliamento delle colonie nei Territori occupati. Queste frasi, Condoleeza Rice le ripeté per due anni di seguito tra il 2007 e il 2008, senza cavarne il minimo frutto. E quindi, se vorranno farsi sentire dal governo di Gerusalemme,"i due migliori amici d’Israele" dovranno parlare con accenti più fermi, più bruschi, e se necessario più ultimativi. Perché muoversi in Medio Oriente è assai diverso che trattare nelle riunioni di Bruxelles. Converrà anche evitare frasi enfatiche come quella detta da Berlusconi l’altro ieri: «Israele paese leader per la libertà e per la pace». Non solo perché essa non risponde a verità, ma anche perché inaccettabile per gli interlocutori palestinesi. Sulla stampa israeliana sono apparse pochi giorni fa le testimonianze d’alcune soldatesse in servizio ai posti di blocco in Cisgiordania, sul comportamento d’altre donne soldato verso i palestinesi. Schiaffoni alle donne, calci nel sedere agli uomini. Non proprio ciò che ci s’aspetta da un paese "leader per la libertà e per la pace".
NON è insignificante l’iniziativa del governo italiano di dichiararsi, nel contesto della visita di Berlusconi a Gerusalemme, il migliore amico d’Israele e un fermo oppositore dei progetti nucleari iraniani. La spinta americana per convincere israeliani e palestinesi a riannodare il negoziato di pace, sembra infatti esaurita. Com’era successo a tutti i presidenti degli Stati Uniti negli ultimi tre decenni, anche Barack Obama ha sbattuto il naso contro le resistenze aperte o dissimulate del governo Netanyahu, deciso come i suoi predecessori a non accettare intromissioni dall’esterno nel conflitto per la Palestina. Così, dopo dieci mesi di sforzi anche generosi, l’amministrazione americana dà l’impressione di aver tolto dalle sue priorità la questione israelo-palestinese. Non a caso, nel recente discorso di Obama sullo Stato dell’Unione il problema è stato clamorosamente taciuto. Che, quindi, due primi ministri europei, la signora Merkel e Berlusconi, si stiano tanto accalorando per dimostrare la loro solidarietà allo Stato ebraico, esprimendo allo stesso tempo la loro avversione verso le intenzioni di Teheran di dotarsi dell’arma nucleare, rappresenta un tentativo d’aprire all’Unione europea (di cui gli israeliani hanno sempre, e qualche volta a ragione, diffidato) uno spazio di movimento e di mediazione alla lontana nella questione mediorientale. E gli israeliani non avrebbero fatto al premier italiano l’accoglienza entusiastica che gli stanno facendo, se il governo di Roma non avesse dimostrato una decisa fermezza nei confronti di Ahmadinejad. Certo, sull’esito del tentativo conviene essere scettici. Se non è riuscito all’America, la potenza protettrice d’Israele, la fonte di massicci aiuti economici e militari, di far interrompere al governo Netanyahu le nuove costruzioni negli insediamenti ebraici dei Territori occupati (il segnale che i palestinesi chiedevano giustamente per tornare al tavolo delle trattative), è molto, molto difficile che l’impresa riesca agli europei trascinati dalla Merkel e da Berlusconi. Ma questo non toglie che il tentativo vada seguito con attenzione. Il punto tuttavia è che non solo Netanyahu, bensì la società israeliana nel suo insieme, non vedono oggi come necessario, e tanto meno urgente, l’approdo ad un compromesso con i palestinesi che serva a varare il progetto dei "due popoli, due Stati". Israele vive infatti il suo migliore momento dalla fine degli Ottanta, dallo scoppio della prima Intifada.
La sua sicurezza s’è enormemente rafforzata grazie alla costruzione del Muro (nessun attentato dal 2006), e alla micidiale operazione dell’anno scorso su Gaza, che ha diminuito del 90 per cento il numero dei razzi lanciati dagli integralisti di Hamas sul sud del paese. L’economia va a gonfie vele: la Borsa continua a crescere, il turismo tocca i picchi del 2000, il Fondo monetario prevede per quest’anno risultati molto migliori che nei paesi più sviluppati, la ricerca s’espande e infatti l’high-tech israeliano, in specie nell’ambito medico, è uno dei più richiesti nel mondo. L’interesse per la pace, e il peso del movimento pacifista, sono quindi andati scemando, di pari passo con lo sgretolamento dei partiti di sinistra.
Così, quando un israeliano noto e stimato come lo scrittore David Grossman, cerca d’organizzare una manifestazione di "Pace adesso" contro l’indebito sfratto dei palestinesi dalle loro case di Gerusalemme Est,a seguirlo sono 150-200 persone, non di più.
Mentre le manifestazioni dei coloni, le loro prese di possesso di nuove colline della Giudea, mobilitano migliaia di fervorosi simpatizzanti senza che il governo, alla pari dei governi precedenti, tenti di scoraggiarle, per tema d’uno scontro interno con i nazionalisti-religiosi. Benyamin Netanyahu e il suo governo di destra-estrema destra, sono popolari, con esiti dei sondaggi che erano mancati dagli anni di Sharon. E questo per due ragioni: la prima è che a credere nella reale possibilità della pace, sono restati soltanto il 20 per cento degli israeliani; la secondaè che il braccio di ferro tra Obama e Netanyahu, che nell’estate-autunno dell’anno scorso aveva fatto temere alla maggior parte degli israeliani un cedimento del loro governo davanti alle richieste di Washington, si è per ora risolto a favore di Netanyahu. Quel che serve ad una società gelosa della propria indipendenza nazionale (e inoltre seriamente minacciata dai piani nucleari del regime di Teheran) per concludere che i governi d’Israele possono tener testa persino alle amministrazioni americane. In una situazione come questa, al momento senza spiragli per un riavvio del negoziato coni palestinesi, l’ingresso sulla scena della Merkele di Berlusconi (accompagnato, come s’è detto, da un indurimento delle rispettive posizioni nei confronti dell’Iran) rappresenta quanto meno un tentativo di smuovere le acque, aggiungendo due nuove presenze a quelle sinora coinvolte nella disputa.
Due presenze anti-Teheran e pro-Israele, così da ottenere l’assenso israeliano alla loro entrata in scena. Quanto ai risultati che ne potranno scaturire, conviene ricordare che Obama e il suo inviato in Medio Oriente, George Mitchell, hanno ottenuto in quasi un anno di continue pressioni soltanto il consenso di Netanyahu (per ora puramente verbale) alla formula dei "due Stati", e la sospensione per dieci mesi di nuove costruzioni in Cisgiordania. Sospensione in buona parte teorica, visto che in Cisgiordania si stanno portando a compimento un paio di centinaia di unità abitative le cui fondamenta erano già state gettate prima dell’impegno a fermare le costruzioni, mentre a Gerusalemme Est se ne stanno costruendo circa settecento.
Se intendono dunque affiancare gli americani negli sforzi per un nuovo negoziato israelo-palestinese, la signora Merkel e Berlusconi (ambedue silenti durante i terribili raids aerei dell’anno scorso su Gaza) non potranno limitarsi a dichiarare la loro amicizia per Israele. Né basterà usare le frasi generiche pronunciate sinora sulla necessità che il governo Netanyahu metta davvero fine all’ampliamento delle colonie nei Territori occupati. Queste frasi, Condoleeza Rice le ripeté per due anni di seguito tra il 2007 e il 2008, senza cavarne il minimo frutto. E quindi, se vorranno farsi sentire dal governo di Gerusalemme,"i due migliori amici d’Israele" dovranno parlare con accenti più fermi, più bruschi, e se necessario più ultimativi. Perché muoversi in Medio Oriente è assai diverso che trattare nelle riunioni di Bruxelles. Converrà anche evitare frasi enfatiche come quella detta da Berlusconi l’altro ieri: «Israele paese leader per la libertà e per la pace». Non solo perché essa non risponde a verità, ma anche perché inaccettabile per gli interlocutori palestinesi. Sulla stampa israeliana sono apparse pochi giorni fa le testimonianze d’alcune soldatesse in servizio ai posti di blocco in Cisgiordania, sul comportamento d’altre donne soldato verso i palestinesi. Schiaffoni alle donne, calci nel sedere agli uomini. Non proprio ciò che ci s’aspetta da un paese "leader per la libertà e per la pace".