Marta Paterlini, Tuttoscienze-La Stampa 3/2/2010, pagina 28, 3 febbraio 2010
STRAPPO AL DNA, LE ARMI SEGRETE DEL DNA
Appena ricostituita dopo la bancarotta, la società islandese deCODE Genetics torna a puntare alto: il fondatore e presidente Kari Stefansson non vuole rinunciare al sogno di essere «il cacciatore dei geni portatori di malattie». E sta dimostrando di esserlo davvero.
Neurologo con una carriera medico-scientifica costruita negli Usa, Stefansson crea deCODE nel ”96 con 12 milioni di dollari e l’idea ambiziosa di raccogliere i dati genetici dei propri concittadini e combinarli con informazioni mediche e genealogiche per identificare i «marker» di specifiche malattie. Da lì - ed è l’obiettivo finale - dovrebbe scattare l’operazione di «cessione» dei geni per lo sviluppo di nuovi farmaci.
Con 283 mila abitanti e 12 secoli di isolamento alle spalle, l’Islanda rappresenta un esempio straordinario di «inbreeding»: la popolazione deriva da un unico gruppo numericamente esiguo di individui, il cui codice genetico si è tramandato attraverso le generazioni senza mescolarsi con altri. Di conseguenza, gli islandesi, che discendono tutti da un manipolo di vichinghi sbarcati verso la fine del IX secolo d.C., sono geneticamente omogenei, perché il Dna dei progenitori è rimasto pressoché inalterato. E’ questo a renderli attraenti agli occhi della comunità scientifica per studiare le malattie genetiche e in 15 anni il bottino scientifico di deCODE si è allargato, dato che sono stati identificati molti dei geni che predispogono ad Alzheimer, schizofrenia, osteoporosi, ansia, obesità e infarto.
Sfruttando queste conoscenze, Stefansson pensava di realizzare farmaci personalizzati e aiutare il 30% dei pazienti che oggi non hanno benefici dalle medicine in commercio. Un’idea vincente dal punto di vista scientifico, ma non altrettanto dal punto di vista economico, perché il vero business - almeno per il momento - non è decollato. Una conferma di questa dicotomia lampante è stata, da una parte, la bancarotta del settore commerciale e, dall’altra, un’importante pubblicazione sulla rivista «Nature». Analizzando gli «Snp» (Single nucleotide polymorphism), che individuano le differenze a livello di singole basi e che concorrono a formare il Dna di ciascun individuo, deCODE ha scoperto una variazione del genoma con un impatto maggiore nella predisposizione al diabete di tipo 2, quello che rappresenta il 95% dei casi.
Professore, questi dati sembrano quasi uno spot pubblicitario per futuri investitori: qual è il significato della scoperta?
«Il primo aspetto importante dello studio è la malattia stessa. L’impatto della variante genomica del diabete di tipo 2 non solo è notevole, ma inusuale. Se la variazione è ereditata per linea paterna, il rischio di mutazione aumenta del 30% rispetto a chi questa variazione non ce l’ha. Se invece l’origine è materna, il rischio di insorgenza diminuisce del 10%. Circa un quarto delle persone studiate ha il più alto rischio di combinazione delle versioni di questo ”Snp” e si trova in una condizione di rischio di circa il 50% maggiore nell’arco della vita rispetto al quarto con la combinazione protettiva».
Un’ennesima prova che la popolazione islandese rappresenta la «cavia» perfetta?
«Proprio per le caratteristiche genetiche della mia popolazione, siamo gli unici a distinguere cosa sia ereditato dalla madre e cosa dal padre, cioè a separare l’influenza materna dall’influenza paterna sulle generazioni successive. E’ affascinante vedere come la Natura generi un equilibrio così diverso. La stessa variazione, ma con una discendenza parentale diversa, ha un esito opposto che produce poi un effetto nella selezione. Abbiamo trovato la stessa tendenza - malattia dal padre, protezione dalla madre - in altre due variazioni: una riguarda il cancro al seno, l’altra alla pelle».
Come avete ottenuto questi dati?
«Grazie alla straordinaria quantità di dati raccolti dalla popolazione. Dati che ci rendono molto forti. Per esempio, sfruttando l’abilità di attribuire i dati di sequenza, possiamo moltiplicare di 100 volte la quantità di informazione generata dalla sequenza di un individuo. Possiamo sfruttare tutto questo per scoprire e integrare varianti ancora più rare all’interno dei nostri test, identificare bersagli genetici di farmaci e mettere a disposizione dei nostri clienti il nostro know-how. Sono convinto che questo sia un grande vantaggio nel condurre studi di sequenziamento su ampia scala nel prossimo paio di anni».
Tecnicamente, come avete proceduto?
«Abbiamo masterizzato il settore di bioinformatica per gestire l’immenso mare di dati, che nasce dall’interpretazione del genotipo e delle sequenze degli individui. La forza della popolazione islandese sta proprio nel fatto che metà del genotipo è identica. Così, per la prima volta, lo ”Snp”, che si trova sul cromosoma 11, è stato associato al diabete di tipo 2, dopo essere stato sequenziato con gli studi ”Gwas”, ”Genome wide association”, una tecnica che ha letteralmente rivoluzionato il campo della genetica».
Che cosa sono i «Gwas»?
«Sono studi in cui vengono analizzate contemporaneamente centinaia di migliaia di varianti geniche, senza che i geni oggetto di analisi siano stati selezionati a priori sulla base di un’ipotesi biologica o patogenetica. Lo scopo non è identificare fattori di rischio genetici per una determinata malattia, ma nuovi geni (e dunque nuovi meccanismi molecolari e cellulari) alla base della patologia. Tuttavia la metodologia non fa distinzione tra discendenza paterna e materna degli ”Snp”. DeCODE, invece, può tracciare virtualmente l’origine parentale di ogni ”Snp” nel genoma delle migliaia di islandesi che partecipano al progetto. Nello studio, infatti, è stato utilizzato il database sulla popolazione e sulla discendenza genealogica per determinare il genitore d’origine di una serie di ”Snp”».
E allora perché la bancarotta? Che cosa è andato storto?
«Lo spiego raccontando l’idea alla base di deCODE, nata con la volontà di aiutare la diagnostica mediante la genetica. Volevamo capire la risposta ai farmaci attraverso la genetica e vendere queste informazioni. Forse, però, siamo stati troppo ambiziosi. Nel ”96, la tecnologia per realizzare l’obiettivo non c’era ancora. C’erano solo gli studi di ”linkage”, che indicano le regioni con i geni potenzialmente adatti. La tecnologia adatta - quella del ”Genome wide association” - ha esordito solo pochi anni fa. Durante tutto questo tempo, comunque, abbiamo raccolto informazioni e dati, che ora si rivelano utilissimi».
Qual è il futuro di DeCODE?
«Siamo consapevoli dell’eccezionalità della nostra ricerca e di quello che può offrire. Ora ci sono investitori pronti a scommettere su una nuova deCODE, che si ripresenta con l’intenzione di rifocalizzarsi su genetica e diagnostica. Saga Investments è pronta a investire 14 milioni di dollari e il lavoro appena pubblicato dimostra che siamo leader nel mondo. Voglio continuare con il mio sogno: definire come un gene determini la diversità del genoma, spiegare come la selezione scateni l’evoluzione e la connessione tra le mutazioni».
Siete però stati accusati di aver violato la proprietà e la privacy del materiale genetico: che cosa risponde?
«C’è una grande incomprensione, perché di tutte le informazioni che raccogliamo rispettiamo la privacy. La banca-dati accoglie solo informazioni sanitarie inserite nelle cartelle cliniche in possesso di ospedali e case di cura ed è previsto un sistema di criptaggio per impedire l’identificazione personale. In altre parole, l’individualità dei dati scompare, lasciando spazio alla sola statistica. Questa gestione ha reso gli islandesi molto favorevoli a deCODE».
Che cos’è per lei una malattia?
«Continuo a cambiare la mia visione della malattia. L’aspetto più affascinante è la sua complessità. E le più complesse di tutte sono le malattie che colpiscono il cervello e gli aspetti biochimici. Per esempio deCODE ha trovato delle somiglianze genetiche tra schizofrenia e autismo: significa che esiste una sovrapposizione sorprendente proprio dal punto di vista biochimico. Sarebbe quindi opportuna una riclassificazione delle malattie e questa trasformazione potrà aiutare anche nella definizione di un trattamento».
Secondo lei, si può ridurre la sfera della coscienza alla semplice genetica?
«Il cervello rappresenta l’ultima frontiera della biologia. Sono convinto che, studiando la diversità delle funzioni e la chimica che si cela dietro le emozioni, si potrà finalmente delineare una definizione della coscienza. Mi dispiace che non sia ancora successo: siamo ancora troppo indietro e non credo sia solo un’inadeguatezza della tecnologia. Esiste anche una forte barriera concettuale tra noi scienziati».
Marta Paterlini