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 2010  febbraio 03 Mercoledì calendario

PETROLIO E CRISI, 5 RAFFINERIE IN BILICO

(+intervista) -
C’è un settore industriale in Italia che quasi non conosceva crisi ma all’improvviso si trova sull’orlo del baratro: è quello delle raffinerie, cioè gli impianti dove arriva il petrolio greggio e da dove escono benzina, gasolio e tutti gli altri carburanti e combustibili che muovono le auto e generano l’energia per le fabbriche e riscaldano le case. L’Unione petrolifera (che federa le compagnie del settore) lancia l’allarme: «Il sistema non funziona più - dice il presidente Pasquale De Vita -. Su 16 raffinerie potremmo essere costretti chiuderne 4 o 5, perché la riduzione dei consumi e delle esportazioni è strutturale. Rischiano il posto 7.500 lavoratori».
Il punto di partenza è la recessione che ha tagliato i consumi di energia. Le compagnie denunciano un miliardo di euro di perdite nella raffinazione/distribuzione per il 2009. Ma se il problema fosse tutto qui, si tratterebbe solo di aspettare la ripresa economica e il surplus produttivo sparirebbe da solo. Invece, denuncia l’Unione petrolifera, «sono in atto dei cambiamenti irreversibili». Le auto bruciano meno carburante, e per la benzina (oltretutto insidiata da diesel, Gpl e metano) si fa più difficile trovare mercato: i suoi consumi in Italia crolleranno dai 12,5 milioni di tonnellate nel 2008 a 9 milioni nel 2015. Persino i voraci Stati Uniti hanno cominciato a puntare su modelli molto più «risparmiosi»: finora gli impianti italiani esportavano moltissima benzina verso l’America, ma adesso questo canale di export richiede sempre meno, e in maniera strutturale.
Da sottolineare che non si può semplicemente decidere di produrre meno benzina e più diesel, perché da ogni qualità data di greggio si possono raffinare solo quote più o meno determinate di prodotti; se invece si forza troppo il cambio del mix, si finisce per consumare, nel procedimento, più combustibile di quello che si produce.
In teoria la benzina in surplus si potrebbe esportare altrove, per esempio nei Paesi emergenti, ma la Cina e l’India stanno aprendo un’infinità di raffinerie, e presto non solo non importeranno ma vorranno pure esportare. L’Arabia saudita ha destinato 120 miliardi di dollari alla costruzione di raffinerie sul suo territorio. La costa del Nord Africa è disseminata di nuovi impianti. Nessuno dei Paesi citati aderisce ai trattati per la riduzione dell’anidride carbonica, quindi non hanno la minima remora a raffinare il greggio senza i costi supplementari dovuti alle preoccupazioni ecologiche.
E qui si arriva, in crescendo, al problema dei problemi secondo l’Unione petrolifera. «L’Italia - dice De Vita - con tutta l’Europa si è autoimposta il piano 20-20-20, cioè il taglio delle emissioni del 20% e l’aumento dell’efficienza energetica del 20% entro il 2020. Già negli ultimi 5 anni il sistema italiano della raffinazione ha perso 15 milioni di tonnellate, partendo dagli 85-90 milioni che aveva. Se saranno applicate le regole 20-20-20 perderemo un’altra decina di tonnellate, arrivando a poco più di 60 milioni». E questo è un livello che secondo l’Up non giustifica l’esistenza di 16 raffinerie con i loro attuali 106,5 milioni di capacità.
De Vita sottolinea che «per ogni raffineria i lavoratori sono 4-500, più quelli dell’indotto che sono due volte tanti. Quindi i posti a rischio potrebbero essere fino a 7.500. Alcune raffinerie sono già di fatto ferme, in una (quella di Falconara) si è firmato un accordo con i sindacati per tagliare 92 posti», ma l’Unione petrolifera avverte che è solo l’inizio di una valanga. Per affrontare l’emergenza il settore chiede al governo «regole più semplici e un adeguamento a quelle adottate negli altri Paesi». Venerdì parte una trattativa presso il Ministero dello Sviluppo economico.
Molto negative le reazioni dei sindacati all’allarme dell’Unione petrolifera. La Filcem Cgil: «Il ricatto occupazionale è un film già visto: a profitti alti si aumentano i dividendi e languono gli investimenti, poi si riducono i margini di profitto e si scaricano i costi sul lavoro». La Uil: «L’allarmismo dell’Up è inutile. Bisogna avere un occhio più lungo, in Italia abbiamo tecnologie migliori degli altri, le condizioni per andare avanti ci sono».
Luigi Grassia

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INTERVISTA A DAVIDE TABARELLI -

Altro che chiuderle, dobbiamo tenerci strette tutte e 16 le raffinerie italiane». Parola di Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia.
Allora non è vero che c’è un surplus strutturale di raffinazione?
«Nel settore dell’energia si fanno diagnosi troppo ondivaghe. Due anni fa dicevamo (ed era vero) che l’alto prezzo della benzina era dovuto non solo e non tanto a carenza di petrolio quanto a scarsa capacità di raffinazione. Adesso parliamo di surplus. Io dico che con la ripresa economica in arrivo tutte le raffinerie italiane torneranno a lavorare al massimo della capacità entro il 2001-2012».
E i cambiamenti irreversibili del mercato? Non ci sono?
«Guardiamoli uno a uno. Per cominciare, escludo che gli americani passino dai grandi Suv alle auto piccole ed efficienti solo perché gliele mettiamo a disposizione. Non avranno stimoli a farlo, finché la benzina da loro costerà 40 centesimi al litro. Continueranno a guidare auto grandi e a importare dall’Italia la benzina per rifornirle».
Gli impegni europei draconiani del piano 20-20-20 non taglieranno i consumi e il mercato per le raffinerie?
«Sono obiettivi che è un eufemismo definire ambiziosi. Sono irrealistici. L’Europa fa male a se stessa e fa male al pianeta proponendo a Usa, Cina eccetera obiettivi assurdi che poi vengono respinti. In Europa ci sarà una certa riduzione dell’intensità energetica e dei consumi, ma non così forte come lascerebbe prevedere l’irrealizzabile piano 20-20-20».
E i cinesi, gli indiani e gli arabi che ci tolgono quote di mercato con le loro nuove raffinerie?
«Hanno costi bassi ma non sono competitivi sul piano tecnologico. Solo in Europa, e soprattutto in Italia, sappiamo raffinare benzina con così tanti ottani e con un contenuto di componenti aromatiche così basso, e gasolio con così poco zolfo. Quando l’economia ripartirà è di questo tipo di carburanti che avrà bisogno il mercato in Europa e negli Stati Uniti, e non di cose di minor qualità raffinate altrove».
Secondo lei la crisi non esiste?
«I problemi congiunturali ci sono e l’Unione petrolifera fa bene, dal suo punto di vista, a sottolinearli. Ma io sono molto meno pessimista dell’Up sul medio-lungo periodo. Bisogna far passare la crisi».
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