STEFANO CARLI, la Repubblica 2/2/2010, 2 febbraio 2010
UN TESORO LUNGO 100 MILIONI DI CHILOMETRI - ROMA - E
alla fine sarà dunque scorporo, anche se in un modo molto diverso da quello che si ipotizzava un anno fa. Allora si ventilava la possibilità di creare una società della rete autonoma e con l´intervento di capitali e soci diversi, dalla Cassa Depositi e Prestiti a Mediaset. Oggi le cose si stanno volgendo in un´altra direzione. Nell´obiettivo di creare una rete «a direzione italiana» dentro una Telecom Italia integrata in Telefonica la cosa si prospetta in termini nettamente più facili: in pratica si tratta di prendere Open Access più o meno così com´è e trasformarla in una spa.
Open Access è oggi una divisione di Telecom Italia, creata due anni fa in risposta ai rilievi dell´Agcom per rendere più trasparente le condizioni di accesso alla rete degli operatori concorrenti di Telecom. Il fatto di essere una divisione non deve trarre in inganno: non è solo una struttura di controllo della rete ma una vera unità operativa. Chi oggi telefonasse al 187 per segnalare un guasto o un disservizio sui servizi a banda larga si troverebbe a dialogare con un call center che fa capo ad Open Access e non alla struttura tecnico commerciale del gruppo di Franco Bernabè.
In sintesi, Open Access ha alle sue dirette dipendenze 20 mila dei dipendenti di Telecom, tra i quali 9 mila tecnici, e dai suoi ordini dipendono i lavori di manutenzione sulla rete di altri 6-7 mila tecnici di ditte esterne che prendono i lavori in appalto. Gestisce un budget di 850 milioni che servono, a spanne, metà per i costi di struttura e metà per quelli di manutenzione e riparazione guasti. E anche per far marciare la flotta di 12 mila furgoni che compiono gli interventi sulla rete.
Insomma, e a creare una Rete Spa dentro Telecom serve, da un punto di vista organizzativo, poco più di un tratto di penna: non ci sono organigrammi da ridisegnare, strutture operative da riscrivere. Ma le cose facili finiscono qui.
Molto più complicato è infatti andare a definire la struttura patrimoniale della nuova società, il valore degli asset trasferiti, perché da questo dipende la struttura dei prezzi che tutti gli operatori (Fastweb, Wind, Vodafone, ma anche la stessa Telecom) dovranno pagare per passare su quei cavi. E da questi prezzi dipenderà la capacità del sistema di generare al suo interno le risorse per gli investimenti che dovranno portare la rete alla generazione successiva: le Ngn, la fibra ottica.
Completare la societarizzazione della rete di Telecom significa in sostanza definire il valore di circa 11 mila centrali telefoniche, 628 stadi di gruppi urbani, 33 nodi di area, quasi 110 milioni di chilometri di doppini in rame che raggiungono circa 21 milioni di utenze, tra famiglie, imprese, esercizi commerciali e studi professionali. E anche 3 milioni e mezzo di chilometri di fibra ottica. Che è però solo nel cosiddetto backbone, le reti che collegano le centrali. Perché di fibra ottica fino a casa degli utenti oggi Telecom di fatto non ne ha. In Italia ci sono solo 350 mila utenze private connesse in fibra e sono praticamente tutti di Fastweb.
Sono almeno due anni, ma forse anche di più, che nessun posa più nuova fibra in Italia nella rete di accesso, ossia nell´ultimo miglio, la parte di rete che entra nelle case degli utenti. Non lo ha fatto Telecom, non lo ha più fatto Fastweb e nemmeno gli altri. La telenovela infinita dell´affare Telecom ha paralizzato tutto, mentre nel resto d´Europa si fanno piani per arrivare al 2015 con almeno un 60% di popolazione connessa ad almeno 50 megabit al secondo. Un obiettivo che in Italia richiederebbe un investimento di circa 7-8 miliardi. Che va ormai deciso in tempi brevi. Perché la fibra ottica non serve oggi, come ha scritto nel suo piano Francesco Caio. Ma se non si comincia ad investire da subito non l´avremo neanche nel 2015, quando servirà davvero.