Andrea Nicastro, Corriere della Sera 02/02/2010, 2 febbraio 2010
SETTE CITTA’ AL POSTO DI PORT-AU-PRINCE
La retorica dell’umanitario frulla a pieni giri. Dopo le donne amputate e i bambini orfani, dopo l’eroismo dei soccorsi e la stoica resistenza delle vittime, sta arrivando il tempo della «ricostruzione». Parigi ha promesso di rimettere in piedi il candido palazzo presidenziale, Washington «il centro amministrativo». Dicendo «non vi lasceremo soli» Barack Obama ha interpretato i sinceri sentimenti del mondo.
Ma, a Port-au-Prince, origliando alle porte di Onu, ambasciata americana e governo di Haiti (che di porte non ne ha più, ma fa lo stesso) pare che passare dalle intenzioni alle azioni sia il problema di qualcun altro. Dopo tre settimane nessuno sa rispondere a domande semplici come queste: quante tonnellate di macerie pesano sul corpo di Port-au-Prince? Quanti camion sarebbero necessari per spostarle? Quante ruspe, scavatrici, bulldozer? Esiste tutto ciò ad Haiti? E poi: quanto cemento, ferro, mattoni, tegole, asfalto, tubature bisognerebbe importare? Infine, la madre di tutte le domande: Haiti, pur con l’immensa generosità internazionale, avrà mai i soldi necessari? Dal momento che la risposta è «no», di che «ricostruzione» stiamo veramente parlando?
« una farsa già vista – dice Giori Ferrazzi, da 30 anni in cooperazione e oggi a Port-au-Prince con Terre des Hommes ”. Nel ”72 ci fu un terremoto a Managua che distrusse il centro storico. Dopo l’emergenza il fiume di denaro diventò un rivolo e, tra corruzione e indecisioni, la gente si arrangiò da sola. Se Haiti non decide ci aspettano solo due possibilità. O i senzatetto lasciano le macerie e colonizzano disordinatamente nuove aree o aggiusteranno in qualche modo le strutture cadenti. In entrambi i casi sarà un disastro. Fra sei mesi sarà impossibile spostarli, dare loro servizi, acqua, piazze, scuole. Port-au-Prince resterà per altri 50 anni un conglomerato condannato al sottosviluppo dove non si potrà lavorare, studiare, migliorarsi. Proprio com’è accaduto a Managua».
La «ricostruzione» potrebbe invece essere un’occasione storica. «Un’occasione di riscatto – come la definisce Suzy Castor, saggista e partner con la sua Ong dell’italiana Mlal ”. Dovremmo sgonfiare questo mostro di capitale da Terzo Mondo e ridare dignità alle province. Durante l’occupazione americana di primo ”900 e la dittatura dei Duvalier, l’attività di Haiti venne concentrata qui, per spremere meglio le tasse dai commerci. Se gli aiuti andassero anche alle province non toccate dal sisma, se il governo riaprisse i porti e attirasse manifatture, la gente si muoverebbe là. Bisognerebbe costruire nuovi insediamenti, ma costerebbe meno che su queste rovine».
Suzy Castor ha buone frecce al suo arco. Riunioni su riunioni di commissioni governative rimaste senza sede si tengono nel giardino della sua villa di Petionville. All’estero la pressione va nella stessa direzione.
Wyclef Jean, è la superstar di Haiti. Vive aMiami, vende dischi in tutto il mondo. Sa farsi ascoltare dal Black Caucus, la lobby nera del Congresso Usa. «Non vogliamo campi profughi’ ha scritto Wyclef Jean ”. Vogliamo sette città modello. Prima tendopoli, ma con il permesso di diventare stabili. Il passo successivo richiede di installare industrie per il mercato Usa che avrebbero manodopera a prezzi concorrenziali con quelli cinesi».
«La decentralizzazione sarebbe un enorme successo per Haiti» insiste Johanna Mendelson Forman, ex consigliere Onu e ora cervello del Center for Strategic and International Studies di Washington.
Il pallino, però, è in mano al presidente invisibile René Preval. Senza palazzo, senza ministeri, Preval si è fatto vedere e sentire pochissimo dalla sua gente. Le magliette con la scritta in creolo «gouvenman koté ’w», il governo al tuo fianco, suonano offensive. Si dice che Preval sia impegnato in incontri con contractor internazionali proprio per la rimozione delle macerie. Nelle bidonville malignano invece che stia trattando l’entità della mazzetta. Il presidente spiega che la priorità è alloggiare in campi periferici i senzatetto. Campi che però, a uno-due mesi dalla stagione delle piogge e a 8 da quella degli uragani non si vedono.
Simone Sarcià, cooperante di Avsi con libero accesso in quartieri infestati da gang e miseria come Cité Soleil e Martissant, tocca con mano l’immobilismo di governo e Onu. «Ci sono due tendenze tra i sopravvissuti, spontanee e opposte: spostarsi nelle province risparmiate dal terremoto oppure restare vicino alla propria comunità anche con il rischio di crolli. Se si vuole rinforzare una delle due tendenze bisogna decidere in fretta. Altrimenti succederà come nel 2004 quando un ciclone investì Gonaives: gli aiuti internazionali arrivarono, ma non cambiarono nulla perché sparirono nelle tasche dei politici e la città è ancora oggi sepolta dal fango. Il peggio però non è neppure questo. Una Organizzazione non governativa costruì una splendida, piccola diga a difesa di un paesino. Gli abitanti la distrussero in pietruzze grandi così. Perché? Niente valanga, niente aiuti. La catena di disperazione ed elemosina doveva continuare».
L’emergenza Haiti 2010 rischia la stessa fine.
Andrea Nicastro