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 2010  febbraio 02 Martedì calendario

HAITI, MANCANO 150 MILA TENDE

Johnny Petithomme, 21 anni, ha la maglietta che portava martedì 12 gennaio, quando il terremoto buttò giù la prigione dov’era rinchiuso. Ricorda che camminava tra morti e macerie, un po’ vergognandosi «di essere felice». Tre settimane dopo, sono rimaste le macerie. Migliaia di edifici distrutti, poche ruspe. Johnny cerca lavoro, Joselyn è in coda per il primo sacco di riso.
Piazza Louverture, centro città, mattina: in coda dietro ai camion Onu soltanto donne. Sono nonne e nipoti, madri che danno il cambio alle figlie. Cantano. Gloria Gloria Alleluia. Nel vicino campo di sfollati davanti al palazzo presidenziale semi-distrutto, con una sola latrina per 10 mila persone, gli uomini stanno a guardare. Qualcuno si lamenta con i parà Usa che sorvegliano la distribuzione di 1.650 sacchi di riso. La maggior parte, come Johnny, aspetta una parente in coda. Dall’altroieri il cibo è distribuito grazie a un sistema di coupon datati e firmati. Maschi esclusi. Sarà così per tutta Port-au-Prince, nei 16 centri fissi finalmente allestiti dal Programma Alimentare Mondiale.
Il nuovo sistema conta di nutrire stabilmente 2 milioni di persone (un sacco per 6 persone ogni 2 settimane). «Finora l’emergenza ci ha imposto modalità veloci e sporche, è tempo di cambiare marcia». Più dirty che quick: quella di Marcus Prior, portavoce Pam alla base Onu di fianco all’aeroporto, è anche la sottintesa ammissione di un mezzo-fallimento. Finora il sistema di aiuti si è rivelato caotico e inefficace: aree e fasce di persone mai raggiunte, mancanza di notizie (cosa possono fare le 46 mila radioline distribuite dai marines Usa?). Cambio di marcia, tutta al femminile: «L’esperienza – dice Prior’ ci ha dimostrato che il cibo arriva meglio se affidato alle donne».
Cosa aspettavano? Tra gli sfollati dello stadio Cator è tornata Rosedithe Menelas, 79 anni, con un sacco di riso per i suoi due nipoti: «Finalmente qualcosa». Prima del terremoto la Federazione Football aveva affidato la gestione dello stadio a Ben Constant, un noto Dj haitiano. Che adesso si trova a dirigere sul campo il «comitato» di sopravvivenza.
Se Haiti non è esplosa in queste settimane molto si deve alla paziente seppur caotica capacità di «cavarsela in qualche modo» degli haitiani. Che però è agli sgoccioli. Roberto Stephenson, fotografo italiano da 10 anni a Port-au-Prince, mi sprona a parlare delle tende che non ci sono: «Perché non le distribuiscono? Dove sono le donazioni? Perché chi fabbrica tende in Italia non manda subito un carico? Se comincia a piovere la gente perderà anche quel poco che le è rimasto».
Al campo della Protezione Civile assicurano che 800-1000 tende familiari dovrebbero giungere dall’Italia nei prossimi giorni. Il governo haitiano sostiene che ne servirebbero 200 mila. Ce ne sono 5.000. Un carico di 40.000 è in arrivo da Panama. Per il resto le stanno fabbricando. In Cina. Ad aprile comincia la stagione delle piogge.
Delle grandi tendopoli da 10.000 posti che l’Onu vuole allestire nei dintorni del capitale ne è pronta una. Manca l’acqua, mancano i servizi igienici. Sabato sono arrivate 1.100 «piattaforme cloaca» d’emergenza, fa sapere l’Onu: «Per la privacy bisognerà ingegnarsi». quello che fa da tre settimane un milione di persone in 500 campi improvvisati. Tendopoli senza tende. Louis Charlemagne nel campo-labirinto di Sanfil l’altra sera stava ultimando una parete dietro la quale dormono (per terra) i suoi due figli che hanno perso la madre. «Non ho trovato niente di più resistente» ha detto mentre con ago e filo cuciva un lenzuolo di pizzo recuperato dalla casa crollata. Uno scudo di pizzo contro il dio degli uragani.
I pochi fortunati che hanno una tenda vera sono proprio i sopravvissuti alle inondazioni che andarono a vivere negli igloo rossi donati dal Canada nel 2008. Lusso raro. «Non la venderei neppure per 100 dollari americani» dice una signora con tre figli campeggiata a Champ de Mars. Louis va di filo e non ha tempo da perdere. C’è chi non può far altro che aspettare: Pierre Josef, impresario di pompe funebri, ha raccontato a Bobby Gosh di Time che il terremoto con i suoi 170 mila morti accertati (e 200 mila stimati) non gli ha portato lavoro. Anzi: sopravvissuti sul lastrico e fosse comuni gli hanno rubato i morti. Ma come è successo dopo gli uragani, Pierre aspetta che le rimesse dall’estero portino denaro per i funerali. E che infezioni e malattie, come nel 2008, scatenino una seconda ondata di decessi.
L’Onu calcola in 200.000 i feriti che necessitano di cure post-operatorie. Gli amputati sono 2.000. Sulla carta, 43 dei 59 ospedali di Port-au-Prince avrebbero riaperto. Ma Roberto Dall’Amico, direttore sanitario dell’ospedale Saint Damien costruito a Port-au-Prince dalla Fondazione Rava, dice che l’emergenza è tutt’altro che finita. «Dobbiamo fare in modo che la seconda ondata di morti non arrivi mai». Che Pierre Josef e i suoi becchini possano attendere invano.
Michele Farina