la Repubblica, 2/2/2010 (autori vari), 2 febbraio 2010
CLAUDIO TITO
«Ci dicono che la fusione tra Telecom e Telefonica non è più evitabile». Fino a poche settimane fa avevano resistito. Avevano anteposto il principio dell´"italianità" a quello delle compatibilità aziendali. Ma alla fine gli uomini del governo e di Palazzo Chigi hanno deciso di scendere a patti. Accettando il progetto di "matrimonio" tra il colosso telefonico spagnolo e quello italiano. Dando il via libera all´Offerta pubblica di Scambio che la società di Madrid è intenzionata a formulare in tempi piuttosto brevi. Nel "contratto di convivenza", però, i rappresentanti del premier esigeranno una "farcitura" di condizioni e paletti. Tutti concentrati su unico aspetto: la gestione e lo sviluppo della rete. L´infrastruttura strategica che rappresenta il valore principale dell´azienda guidata da Franco Bernabè.
Nei prossimi giorni, allora, (i contatti inizieranno forse già oggi ma i colloqui si dovrebbero svolgere al ritorno di Scajola da Israele), l´esecutivo convocherà i vertici di Telecom Italia. Il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, insieme al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta, e al viceministro, Paolo Romani, chiamerà l´ad Bernabè e il presidente Gabriele Galateri, per spiegare la posizione del governo. Un incontro, solo formalmente di cortesia - i ministeri non hanno ormai alcuna competenza diretta nella governance di Corso d´Italia - ma che costituisce un passo pesante: nessun imprenditore straniero può investire in un settore così delicato e "sensibile" senza il via libera di Palazzo Chigi. E in questo faccia a faccia gli uomini del presidente del consiglio annunceranno a Bernabè la disponibilità ad accettare la "fusione".
Un orientamento fino ad ora negato. Il Cavaliere non ha mai nascosto la sua contrarietà a perdere il controllo sulla telefonia nostrana e soprattutto sulla rete che amministra tutte le comunicazioni sull´intero territorio. Nell´ultimo anno sono state valutate una serie di opzioni per allontanare lo spettro iberico: dallo scorporo della rete all´ingresso di un socio italiano in grado di sostituire il partner spagnolo. Alternative che si sono rivelate impraticabili. Nelle settimane scorse era stato esaminato addirittura uno scambio azionario tra Telefonica e Mediaset: scartato per una questione di opportunità "politica" ma anche per la difficoltà a reperire i finanziamenti sufficienti per il conguaglio in grado di compensare un concambio paritario. «Adesso - ripetono allora a Palazzo Chigi - ci dicono che la fusione tra Telecom e Telefonica non è più evitabile».
Gli uomini di Berlusconi stanno dunque predisponendo un pacchetto di richieste per "vincolare" la fusione e blindare il futuro della rete che necessita di fondi poderosi per ammodernarla e farla approdare alla "Infrastruttura di Nuova Generazione". In sostanza l´esecutivo italiano vuole che l´operazione venga accompagnata da «garanzie» sulla governance della nuova società e sulla «gestione» della rete. In particolare vorrebbero la previsione di una circostanziata serie di «patti parasociali» in grado di fornire le «garanzie» richieste. I soci italiani (Generali, Mediobanca, Intesa) dovranno quindi essere coinvolti ai massimi livelli nell´amministrazione apicale del "colosso" e nelle scelte strategiche, a partire dal Consiglio di amministrazione. A Palazzo Chigi gradirebbero addirittura la costituzione di una società ad hoc per la gestione della rete (controllata integralmente da Telefonica) affidata a management italiano. In più suggeriranno una clausola di "lock up" per evitare che i partner italiani rinuncino in tempi troppo brevi al loro pacchetto azionario.
Sta di fatto che Palazzo Chigi è pronto ad accendere con Bernabè il "disco verde". Un segnale, del resto, che a Madrid è già in parte arrivato. A dicembre scorso Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri incontrarono il primo ministro spagnolo Zapatero per discutere dell´affare Prisa. E in quell´occasione - forse non a caso -, contestualmente all´ingresso di Mediaset nel mercato televisivo di Madrid, il capo del governo iberico sfiorò il tema Telefonica assicurando il suo impegno sulla difesa della "italianità" della rete Telecom.
Da qual momento l´esecutivo di Roma ha sospeso le risorse da impegnare per la ristrutturazione della rete e il presidente della compagnia telefonica spagnola, Cesar Alierta, ha iniziato a predisporre una Offerta pubblica di scambio per la totalità della ex Sip. Sul tappeto intende poi stendere - se Palazzo Chigi darà l´avallo finale - un percorso di questo tipo: costituire una Holding (Telecom Europa) che controllerà le due società. Criteria (finanziaria controllata dal gigante bancario Caja Ahorros), secondo azionista di Telefonica con il 5,1% - il primo è il Banco Bilbao con il 5,3% - si fonderà con Telco per costituire il "nocciolino" di controllo di Telecom Europa.
Certo, le preoccupazioni nel governo italiano persistono. Sulle linee telefoniche "corrono" dati sensibili: difesa, sicurezza, intercettazioni, protezione civile. E in futuro sugli stessi "binari" correrà la televisione, settore tanto caro al Cavaliere. Per di più lo scambio azionario proposto da Alierta non potrà certo essere vantaggioso per i soci nostrani. Basti pensare che la compagnia italiana conta su una capitalizzazione di 14,5 miliardi e quella spagnola di 83 miliardi. Senza dimenticare che i "patti parasociali" hanno una durata triennale. Tant´è che a Palazzo Chigi c´è anche chi non esclude che questo possa essere il momento per concentrare gli sforzi per la costruzione di una nuova rete "pubblica" a fibra ottica.
STEFANO CARLI
ROMA - E alla fine sarà dunque scorporo, anche se in un modo molto diverso da quello che si ipotizzava un anno fa. Allora si ventilava la possibilità di creare una società della rete autonoma e con l´intervento di capitali e soci diversi, dalla Cassa Depositi e Prestiti a Mediaset. Oggi le cose si stanno volgendo in un´altra direzione. Nell´obiettivo di creare una rete «a direzione italiana» dentro una Telecom Italia integrata in Telefonica la cosa si prospetta in termini nettamente più facili: in pratica si tratta di prendere Open Access più o meno così com´è e trasformarla in una spa.
Open Access è oggi una divisione di Telecom Italia, creata due anni fa in risposta ai rilievi dell´Agcom per rendere più trasparente le condizioni di accesso alla rete degli operatori concorrenti di Telecom. Il fatto di essere una divisione non deve trarre in inganno: non è solo una struttura di controllo della rete ma una vera unità operativa. Chi oggi telefonasse al 187 per segnalare un guasto o un disservizio sui servizi a banda larga si troverebbe a dialogare con un call center che fa capo ad Open Access e non alla struttura tecnico commerciale del gruppo di Franco Bernabè.
In sintesi, Open Access ha alle sue dirette dipendenze 20 mila dei dipendenti di Telecom, tra i quali 9 mila tecnici, e dai suoi ordini dipendono i lavori di manutenzione sulla rete di altri 6-7 mila tecnici di ditte esterne che prendono i lavori in appalto. Gestisce un budget di 850 milioni che servono, a spanne, metà per i costi di struttura e metà per quelli di manutenzione e riparazione guasti. E anche per far marciare la flotta di 12 mila furgoni che compiono gli interventi sulla rete.
Insomma, a creare una Rete Spa dentro Telecom serve, da un punto di vista organizzativo, poco più di un tratto di penna: non ci sono organigrammi da ridisegnare, strutture operative da riscrivere. Ma le cose facili finiscono qui.
Molto più complicato è infatti andare a definire la struttura patrimoniale della nuova società, il valore degli asset trasferiti, perché da questo dipende la struttura dei prezzi che tutti gli operatori (Fastweb, Wind, Vodafone, ma anche la stessa Telecom) dovranno pagare per passare su quei cavi. E da questi prezzi dipenderà la capacità del sistema di generare al suo interno le risorse per gli investimenti che dovranno portare la rete alla generazione successiva: le Ngn, la fibra ottica.
Completare la societarizzazione della rete di Telecom significa in sostanza definire il valore di circa 11 mila centrali telefoniche, 628 stadi di gruppi urbani, 33 nodi di area, quasi 110 milioni di chilometri di doppini in rame che raggiungono circa 21 milioni di utenze, tra famiglie, imprese, esercizi commerciali e studi professionali. E anche 3 milioni e mezzo di chilometri di fibra ottica. Che è però solo nel cosiddetto backbone, le reti che collegano le centrali. Perché di fibra ottica fino a casa degli utenti oggi Telecom di fatto non ne ha. In Italia ci sono solo 350 mila utenze private connesse in fibra e sono praticamente tutte di Fastweb.
Sono almeno due anni, ma forse anche di più, che nessun posa più nuova fibra in Italia nella rete di accesso, ossia nell´ultimo miglio, la parte di rete che entra nelle case degli utenti. Non lo ha fatto Telecom, non lo ha più fatto Fastweb e nemmeno gli altri. La telenovela infinita dell´affare Telecom ha paralizzato tutto, mentre nel resto d´Europa si fanno piani per arrivare al 2015 con almeno un 60% di popolazione connessa ad almeno 50 megabit al secondo. Un obiettivo che in Italia richiederebbe un investimento di circa 7-8 miliardi. Che va ormai deciso in tempi brevi. Perché la fibra ottica non serve oggi, come ha scritto nel suo piano Francesco Caio. Ma se non si comincia ad investire da subito non l´avremo neanche nel 2015, quando servirà davvero.
MASSIMO GIANNINI
Una politica industriale cervellotica e schizofrenica. Non c´è altro modo per giudicare le non-scelte del governo sugli asset stretegici del Paese. Due anni fa, in piena campagna per le elezioni politiche, Berlusconi costruì una sua dissennata linea del Piave per difendere Alitalia dall´assalto dei francesi. Oggi, alla confusa vigilia delle elezioni regionali, il premier sbaracca la sua disastrata linea Maginot per regalare Telecom agli spagnoli. Non sarà certo «Repubblica» a gridare allo scandalo perché un altro pezzo importante del nostro Sistema-Paese finisce in mani straniere. Certo non si può gioire per questo. Ma già due anni fa considerammo strumentale e anti-storica la difesa sciovinista dell´«italianità» della compagnia di bandiera, e sbagliata perché più incerta e costosa la nascita della «Fenice», la famosa cordata tricolore di Colaninno&soci. Se l´opzione autarchica era di per sé discutibile allora nel trasporto aereo, lo è altrettanto oggi nelle telecomunicazioni. Ma nell´affare Telecom-Telefonica, come giustamente anticipava Paolo Gentiloni su «Affari & Finanza» di ieri, ci sono buchi neri clamorosi.
Il primo buco nero è politico. Se il centrodestra considera l´italianità delle aziende un valore in sé, allora deve farlo valere sempre e non a corrente alternata. Ma ci rendiamo conto che è impossibile esigere coerenza da chi ha costruito la sua intera biografia personale sulle bugie. Tuttavia qui una domanda è d´obbligo: che ruolo avrà Mediaset? C´è qualche nuovo interesse in conflitto, tra la decisione sul destino di un «bene pubblico» come le tlc e la posizione del presidente del Consiglio-proprietario di un impero radiotelevisivo privato? Non sarebbe la prima volta. Ma sarebbe gravissimo se per qualche ragione segreta o per qualche via traversa anche «l´azienda di famiglia» partecipasse alla festa di matrimonio, magari anche solo attraverso partite di scambio lucrate in terra spagnola.
Il secondo buco nero è finanziario. Come si celebreranno le nozze non è affatto chiaro. Telecom è controlata da Telco, la holding che possiede il 22,5% del capitale, suddiviso in quote paritetiche tra Telefonica e i soci italiani (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo). Il resto è polverizzato tra migliaia di piccoli azionisti. Qui le domande sono tante. Come avverrà la fusione? Con un´Offerta pubblica di acquisto e scambio? A quali prezzi e con quali valori di concambio? E come saranno tutelate le minoranze? Sarà importante capirlo, per avere la certezza di chi ha vinto la partita (sicuramente Carlos Alierta) e chi potrebbe perderla più di altri (i risparmiatori in Borsa).
Il terzo buco nero è economico. Nelle condizioni attuali Telecom non può reggere. Ha debiti per 35.185 milioni di euro, deve ridurre il suo perimetro operativo (vedi vicenda Argentina), è costretta a dimezzare gli investimenti. Quando fu privatizzata valeva il triplo di Telefonica: oggi è il contrario. Ma Telecom ha in pancia una risorsa straordinaria: la rete, sulla quale non transitano più solo i telefoni, ma Internet, la banda stretta, quella larga e in prospettiva anche quella ultra-larga. Cioè tutto ciò che serve a modernizzare e a connettere un Paese. La rete è un monopolio naturale, e come sostiene Franco Bernabè non può essere scorporata dall´azienda, senza decretarne l´«eutanasia» industriale. Qui la domande sono due. Che ne sarà della rete? Chi la controllerà e con quali risorse? Secondo le indiscrezioni, il governo punta a ottenere dagli spagnoli garanzie attraverso clausole e patti para-sociali. Sarebbe bene conoscerli. Già quando nacque Telco agli spagnoli furono imposte ben 28 condizioni. Se ne potranno aggiungere altre 28, o magari 128. Ma alla fine quello che importa sapere non è solo chi sarà il vero «padrone» della rete, ma come potrà farla fruttare, potenziandola e portandola ovunque c´è bisogno.
Speriamo che Berlusconi, Scajola e Romani colmino presto questi buchi neri. Quello che difficilmente riusciranno a dimostrare è che il Paese sta facendo l´affare del secolo. vero, da questa fusione può nascere il più grande player delle telecomunicazioni globali. Ma l´Italia, ancora una volta, arriva all´altare sconfitta. Per l´insipienza dei politici, molto più che dei manager, è costretta ad arrendersi a un «matrimonio riparatore». La stessa cosa, temiamo, succederà molto presto all´Alitalia con Air France. Ma è questo che piace, evidentemente, ai falsi «cadornisti» di Palazzo Chigi.
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