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 2010  febbraio 01 Lunedì calendario

L’ARTE PI GRANDE DIPINGERE UN FIORE

DITELO, o anzi dipingetelo, con un fiore; e ancor meglio se con tanti fiori: sia l’omaggio a un Santo o a Dio, l’amore, la riflessione sull’effimera brevità della vita, il colore stesso, la ricchezza, o l’opulenza. Nel Seicento, dipingere i petali era ancora arte da Dio minore: un ripiego; a farla da padrone, almeno in Italia, erano le storie e le figure; nel Settecento, quello del fiore diventa genere autonomo; i quadri successivi, basti pensare a Van Gogh, ne ridondano. E in questa cornice, come vedremo sotto il pretesto di un quadro locale tanto prezioso quanto misterioso, si cala una singolare mostra a Forlì (fino al 20 giugno, cat. Silvana), Fiori, natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh: 120 opere tra cui alcuni capolavori assoluti e molte che permettono interessanti riflessioni, scelte in 60 musei del mondo da Daniele Benati, Alessandro Morandotti e Fernando Mazzocca, con un comitato scientifico diretto da Antonio Paolucci. E’ la quinta grande esposizione che Forlì e la sua Fondazione Cassa dei Risparmi organizzano nell’ex convento di San Domenico, per riqualificare la città anche sotto il profilo culturale: bella impresa, finora ottimamente riuscita.
Caravaggio, la cui Canestra è forse prototipo nel campo, è assente; ma non mancano i suoi seguaci. All’epoca, c’erano anche artisti specializzati in questo: Jan Brueghel è stato soprannominato ”dei Velluti” o ”dei Fiori”, e a Roma manca una via intitolata a Mario Nuzzi (1603-73), perché tutti lo conoscono solo come Mario dei Fiori; ma lavorava sempre da collaboratore d’un artista ”di figure”, magari Maratta. Il Seicento è il tempo della ricerca scientifica e dell’ansia di catalogare tutto; i Medici vi si dedicano grandemente, e per loro lavorano ad esempio Gaspare Lopez, Jacopo Ligozzi (il preferito dal grande naturalista Ulisse Aldrovandi), e, soprattutto, Bartolomeo Bimbi: a Poggio a Caiano è sorto un Museo della Natura morta assai basato sul loro lavoro; qui, ci sono anche le uniche tre tele di un Girolamo Pini che, nel 1614, eterna 190 tipi di fiori, e di lui non si sa di più: lo si suppone parente di Giovanni, un altro artista mediceo. Ma Pini non è il mistero più grande; infatti, il top è rappresentato dai Fiori in una fiasca impagliata, una stupenda tavola di pero del 1625, donata nell’Ottocento al Museo di Forlì: iris e gladioli ritratti dal vero, il cui autore non è mai stato individuato. Si è parlato di tanti: da Guercino a Cagnacci; e poi del romano Tommaso Salini, un cui dipinto da Madrid offre una fiasca analoga; e oggi è il ”primo motore” (peraltro immobile) di questa rassegna.
Dal Seicento (anche Strozzi; Procaccini; due splendidi Van Dyck; le tele del Maestro di Hartford in cui Zeri ravvisava Caravaggio giovane; un suadente Cagnacci), si passa oltre: ad una galleria davvero da brividi. Due Van Gogh del 1886, quando diceva d’aver dovuto ripiegare sui fiori perché gli mancavano i fondi per pagare i modelli, sono densi di tinte e materia; con serti e Flore, i preraffaelliti come Albert Moore e Frederic Leighton si scatenano; magnifici due Alma Tadema: sue forse le più belle rose; e due Ninfee di Monet del 1906, insieme a quelle con ramo di salice che a Parigi adornano l’omonimo liceo. Qui però, i ”giganti” davvero non mancano: Gauguin, Délacroix (che non si è limitato a scene di massa; nel suo romanticismo, non disdegnava neppure le corolle); o Moreau, che da buon simbolista, ama parecchio i fiori; o Cézanne, le cui nature morte non sono composte soltanto da impareggiabili frutti, ma spesso accompagnate anche dai vasi e dal contenuto, magari le margherite.
Tuttavia, anche alcuni tra gli italiani non sfigurano: come Hayez, Previati, Pellizza da Volpedo, Boldini, Segantini, Zandomeneghi, De Nittis, Michetti, Tallone e Longoni. Del resto, se una sezione della mostra esordisce con la Fiasca che resta misteriosa, un’altra si apre con Andrea Appiani e il Ritratto di Joséphine de Beauharnais, appena divenuta la signora Bonaparte subito dopo la conquista dell’Italia, mentre incorona di fiori il sacro mito di Venere. Lo spazio finale è tutto votato a Cesare Majoli, grande naturalista forlivese (1746-1823), la cui Plantarum Collectio, in 27 volumi, ne cataloga e disegna 4.500 tipi; se lo meritava: perché, talora, qualcuno è propheta perfino in patria. E da quel lontano Seicento, in cui, sovente, non erano neppure ammessi alle Accademie, anche i ”fioranti” ormai sono stati da tempo riabilitati. E, in processione ben scelti a Forlì, ora mostrano parecchio del meglio di sé. Che non è davvero poco.