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 2010  gennaio 31 Domenica calendario

STORIA D’ITALIA IN 150 DATE

17 marzo 1861
Atto I, anzi II
Ci scusiamo con quei lettori che si aspetterebbero di vederci cominciare in un rotear di sciabole sabaude e proclami garibaldini. Ma le battaglie della seconda guerra d’indipendenza e l’epopea dei Mille sono già alle nostre spalle. L’Italia è fatta, quasi per intero: rimangono fuori solo il Veneto e il Lazio, ancora sotto il dominio degli Asburgo e del Papa. Ed è fatta di corsa, forse persino troppo: dall’ingresso trionfale a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III (giugno 1859) all’incontro di Teano nel quale Garibaldi ha consegnato il Sud borbonico al Re piemontese (ottobre 1860) sono trascorsi appena diciassette mesi. L’Italia è fatta, sì. Ma, come è noto, restano da fare gli italiani. Impresa molto più difficile, tanto è vero che dopo 150 anni vi siamo ancora impegnati.
Con le elezioni del 27 gennaio 1861 torinesi, milanesi, fiorentini, napoletani e palermitani tornano dunque a vivere insieme. Non accadeva dalla caduta dell’Impero Romano. A deciderlo però è un’esigua minoranza. Il primo Parlamento nazionale viene votato dall’uno per cento della popolazione: 240.000 elettori, tutti di sesso maschile e con un carico d’imposta di almeno 40 lire annue. L’Italia è fatta, ma senza le donne, i cattolici (i preti hanno vietato ai fedeli di andare alle urne), gli analfabeti, i poveri e gli evasori fiscali: il restante novantanove per cento, insomma. Sono sempre le minoranze decise a fare la Storia e, conquistato il potere, a imporla alle maggioranze inerti come epica collettiva. Accade così che generazioni di italiani siano state cresciute nel culto di gesta memorabili alle quali il popolo aveva partecipato solo come spettatore.
La formula battesimale recita: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia». Quel II la dice lunga sull’idea che i vincitori hanno dell’unità nazionale: non la fondazione di un nuovo Stato, ma il prolungamento di quello vecchio, le cui leggi vengono estese in modo automatico alle altre regioni, con conseguenze disastrose soprattutto al Sud. Mazzini, che aveva in mente una soluzione repubblicana, è disperato. Cattaneo, che premeva per il federalismo, è amareggiato, ma forse non è possibile fare niente di diverso. Di sicuro non può farlo il Parlamento che il 17 marzo 1861 a Torino, riunito in seduta comune nel cortile di palazzo Carignano in un padiglione provvisorio, ascolta la storica Proclamazione. composto per quattro quinti dai notabili della Destra, gelosi custodi dei propri privilegi. Il loro predominio sul Risorgimento è dovuto a ragioni politiche e sociali, ma anche personali. I moderati hanno alle spalle un modello di Stato, quello sabaudo. Rappresentano una classe compatta, l’alta borghesia. E sono guidati da un genio completo, Cavour. Invece i democratici della Sinistra si presentano divisi e litigiosi (già allora). Anche il genio che li guida è spaccato in due: ha la testa di Mazzini e il braccio di Garibaldi, in baruffa perenne fra loro. La morale della favola risorgimentale è che i democratici ne scrivono le pagine più romantiche, ma sono sempre i moderati a incassare i diritti d’autore.