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 2010  gennaio 31 Domenica calendario

DANIEL PENNAC

Scrittore di popolarità irresistibile e con fantastico senso dell´umorismo, Daniel Pennac sarà dal 5 al 7 febbraio sulla scena del Teatro Argentina di Roma per rendere omaggio a uno dei suoi autori preferiti, Herman Melville, prestando la sua voce e la sua presenza dinoccolata e volatile, un po´ da cugino di Monsieur Hulot, alla lettura-spettacolo di Bartleby lo scrivano, il testo più misterioso e ossessivo dell´autore di Moby Dick e uno dei racconti più belli della letteratura occidentale: «Non so quando l´ho letto per la prima volta, forse da adolescente o forse dopo i vent´anni. Non lo ricordo più perché con Bartleby convivo, è una parte di me. Probabilmente è stata la lettura che mi ha segnato di più insieme a La leggenda del grande inquisitore di Dostoevskij. Certi libri sono come figli. Quando ti nasce un bambino sai di aver vissuto prima che lui esistesse, ma dopo cinque minuti che è venuto al mondo hai l´impressione che ti stia accanto dall´eternità, fuso con la tua vita. Così quel capolavoro abita in me da sempre».
La novella di Melville in qualche modo gli assomiglia, nel senso che c´è un´affinità tra Bartleby e certi eroi dei romanzi di Pennac, inadeguati o troppo resistenti al sistema, allergici ad autorità e istituzioni: «Ambientata a New York verso metà Ottocento, la storia è quella di un copista che viene assunto in uno studio legale di Wall Street, e fin dall´inizio scansa in modo cortese ma netto e disarmante ogni richiesta del suo datore di lavoro. La sua risposta è un reiterato "Preferirei di no", e non abbassa mai la guardia in questo rifiuto radicale ad ogni prestazione. Di Bartleby mi piace il categorico sottrarsi all´affanno della commedia umana, ma amo altrettanto il vano accanirsi del suo capo nello sforzo di comprendere l´inoppugnabile determinazione dell´impiegato. In fondo tutti, dentro di noi, abbiamo questi due personaggi, il che ci fa comprendere l´universale successo di questo piccolo testo invischiante».
La voglia di assenza e il defilarsi dalla ribalta dell´adeguamento a certi meccanismi sociali sono temi cari a Daniel Pennac, romanziere tanto popolare quanto riservato, convinto che «nella nostra epoca si possa essere improvvisamente catturati dal desiderio di non desiderare affatto poiché tutto è presentato come desiderabile. Desiderio di buoni consumi, desiderio di mostrare e di mostrarsi, desiderio di andare in televisione, persino desiderio della morte. Posso capire benissimo che a un certo punto si sia presi dal desiderio di non desiderare nulla». Sparire, afferma, è la sua vocazione: «Per questo io e mia moglie, che è autrice di libri per ragazzi (si firma Véronique M. Le Normand, ha mantenuto il suo cognome da non sposata), passiamo la vita scrivendo a Parigi, chiusi nei rispettivi studi, soltanto per un certo periodo, e trascorriamo quattro mesi all´anno in una casa in montagna a milleduecento metri, su un altopiano ampio e disabitato dove non passa mai nessuno. Un rifugio perfetto. L´esistenza istituzionale non è nelle mie corde. Non vado ai cocktail, non ho mai accettato di fare parte di una giuria letteraria, non scrivo sui giornali, non sono un editore, diserto qualsiasi manifestazione ufficiale».
Allora perché lanciarsi su una scena teatrale? Essere attore non richiede un buon grado di narcisismo? «Quella di Bartleby è una lettura in forma di spettacolo dove il protagonista è il libro che ho tra le mani. Io sono lì soltanto come qualcuno che leggendo rappresenta i diversi stati d´animo di un lettore che attraversa, con le sue emozioni e i suoi pensieri, le pagine della vicenda narrata. Leggere a voce alta mi piace moltissimo, è una cosa che ho sempre fatto e che si collega ai momenti decisivi della mia vita. Al primo incontro con mia moglie le ho letto Il visconte dimezzato di Calvino, che è uno dei miei autori italiani preferiti insieme a Svevo e Gadda (e tra i contemporanei prediligo Stefano Benni che mi fa morire dal ridere). Anche a Véronique piace leggermi romanzi ed è fenomenale per resistenza, molto più di me. Quando ci spostiamo in automobile per la Francia uno di noi guida e l´altro legge a voce alta, e lei può farlo per settecento chilometri o di più. Così identifichiamo i nostri viaggi con certi romanzi, per esempio L´amore al tempo del colera di Garcìa Marquez per noi equivale alla distanza tra Parigi e Biarritz».
Pure a sua figlia Alice, che ha 27 anni e fa la musicista, Daniel Pennac ha letto molti libri: «Trovo meraviglioso comunicare una bella storia a qualcuno che mi sta a cuore. Quello che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara, ed è a una persona cara che ne parleremo subito. Forse perché la peculiarità del sentimento, così come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare significa proprio questo: regalare le nostre preferenze a coloro che ci piacciono di più. E sono queste preferenze condivise a costruire la nostra libertà».
La lettura è un tema (Pennac ce lo ha spiegato a fondo in un suo bel saggio del ”92, Come un romanzo) sempre al centro degli interessi di quest´ironico signore francese con l´aria da maestro distratto e accogliente, quel tipo di prof sognato dai ragazzi nella pesantezza quotidiana della scuola che spiega tutto quel che c´è da spiegare con estro ludico e acuta intelligenza delle necessità giovanili. La verità è che di pedagogia se ne intende molto l´ex pessimo allievo Daniel, nato a Casablanca nel ”44 con un cognome da fumetto quale Pennacchioni, che avrebbe poi contratto nel più svelto pseudonimo Pennac, e figlio di un padre militare che lo fa crescere tra spostamenti in luoghi esotici del mondo, dall´Africa equatoriale all´Indocina. La sua carriera scolastica è un disastro, risulta il peggiore in ogni materia, «proprio al limite dell´ebetismo», e si riscatta solo alla fine del liceo, quando un insegnante intuisce il suo talento anticonvenzionale e al posto dei temi consueti gli chiede di scrivere un romanzo.
Pennac si laurea in lettere all´Università di Nizza, diventa a sua volta insegnante, comincia a scrivere libri per bambini e va ad abitare a Belleville, la vivacissima zona multiculturale alla periferia di Parigi dove si svolge la serie di romanzi dedicata a Benjamin Malaussène che lo avrebbe reso famoso, da Il paradiso degli orchi a La fata carabina, da La prosivendola a Signor Malaussène. Di professione «capro espiatorio», il suo illustre campione letterario si muove al centro di una colorata famiglia multietnica inclusiva di fratellastri improbabili, sorelle veggenti e madre perennemente incinta: «La storia esilarante di Malaussène parte dalla mia fascinazione intellettuale, terribilmente seria, per l´opera del filosofo René Girard, che nella sua teoria del capro espiatorio analizza storicamente i sistemi della persecuzione e dell´attribuzione della colpa e il riconoscimento in certe società di vittime sacrificali. Ho immaginato un personaggio che fosse salariato per farsi insultare e strapazzare al posto degli altri, e ne ho parlato con Girard che ha trovato la mia idea divertentissima. Siccome abito a Belleville dal 1969 e conosco bene il quartiere, nei libri ho messo tanto del milieu: le mie strade, i miei amici, la mia vita. Per Malaussène ho inventato una scrittura metaforica, molto classica ma anche popolare e piena di argot, e all´epoca questa mescolanza mi ha appassionato enormemente. Non è escluso che possa catturarmi ancora e che io scriva un nuovo capitolo della saga».
Anche se è al capro espiatorio Malaussène che Pennac deve la maggior parte della sua fortuna letteraria, tanti altri sono i suoi libri, tra fiction e saggi, l´ultimo dei quali è il Diario di scuola uscito tre anni fa. Questo testo accorato ma anche esilarante, che ogni ministro della pubblica istruzione avrebbe il dovere di leggere, riflette ed elabora il suo catastrofico rapporto con l´apprendimento obbligato e le sue esperienze d´insegnante per quasi un trentennio: «L´ho scritto in cinque anni, ma ne ho impiegati venticinque a pensare di scriverlo. Io sono così: lentissimo e abbonato al dubbio. Quando ho deciso finalmente di ripescare nel ricordo il mio sofferto e assurdo excursus scolastico, l´ho fatto con la lucidità dell´ex somaro che può avere qualche chiave di lettura in più per interpretare lo schema doloroso dello studente che teme il professore, del professore orripilato dal pessimo studente, dei genitori in preda al panico per via del figlio che va male a scuola e di tutti che s´avvitano in una spirale mostruosa di equivoci e paure dentro la quale il ragazzo diventerà sempre più asino». Dice di essere totalmente sicuro che «in ogni essere umano, indipendentemente da ambiente e famiglia, esista la possibilità d´interessarsi al sapere, e senza questa convinzione non avrei fatto l´insegnante tanto a lungo. Tutti i bambini e gli adolescenti, nel momento in cui ci si occupa veramente di loro senza abbandonarli al consumismo, possono innamorarsi della cultura».
Inoltre è ridicolo, secondo Pennac, sostenere che il degrado dell´insegnamento dipenda dalla mancanza d´autorità e dall´affievolirsi di metodi severi nelle scuole: «Non c´è autorità se non ci sono affetto, rigore intellettuale e attenzione reale verso i ragazzi. L´autorità può essere solo quella affettiva di chi ci tiene ai propri figli e allievi e s´interessa alla loro evoluzione. Un bambino del 2010 è ovviamente diverso da uno del 1950, ma entrambi hanno bisogno di persone che li seguano e siano adulte davvero, senza perdersi in un consumismo imbecille. Non si può rimproverare ai bambini di drogarsi di tivù e videogiochi se si preferisce un´automobile alla propria famiglia».