Chiara Pasetti, Il Sole-24 Ore 31/1/2010;, 31 gennaio 2010
I BISTURI DEL GIOVANE GUSTAVE
«Le prime impressioni non si cancellano, lo sai. Portiamo dentro di noi il nostro passato [ ... ] . Quando mi analizzo, trovo in me, ancora vive [ ... ] , le mie fantasticherie di bambino nel giardino,vicino alla finestra dell’anfiteatro », scrive Flaubert alla madre all’età di diciannove anni. La casa natale, in cui visse per venticinque anni prima di trasferirsi definitivamente nell’"eremo" di Croisset dove nasceranno i suoi capolavori, si trova a Rouen, in Rue Lecat, e dal 1755 serviva per ospitare il médecin chef dell’Hôtel Dieu. Davanti si trovava infatti il grande ospedale, sul quale egli insiste incessantemente tanto nelle lettere quanto nelle opere. «Sono nato all’ospedale di Rouen, [ ... ] e sono cresciuto nel mezzo di tutte le miserie umane, da cui un muro mi separava. Da bambino ho giocato in un anfiteatro di dissezione. Ecco perché, forse, ho arie a volte funebri e a volte ciniche», scrive nel 1857. E il suo ricordo di infanzia più sfruttato dai biografi è proprio quello che si riporta all’anfiteatro di dissezione, in cui da ragazzino, arrampicandosi alle finestre insieme alla sorella, spiava con curiosità il padre che sezionava i cadaveri.
La consuetudine al dolore, alla sofferenza, alla morte, più pensata che vissuta, cui cercava di sfuggire costruendosi un teatro nella sala del bigliardo, proprio accanto all’anfiteatro paterno, e creando un proprio mondo cartaceo di fantasia e sogno di cui sono testimonianza i tanti scritti giovanili, marcherà profondamente il suo immaginario, e forse più che nel clima fosco dei petits romantiques dell’epoca, misterioso e cinico, ossessionato dalla morte, è proprio nell’influenza dei morti dell’Hôtel-Dieu, nell’obitorio e nell’anfiteatro di dissezione, che va ricercata la genesi dei suoi primi testi, ancora in parte inediti in Italia, che in alcuni casi sono delle vere e proprie anticipazioni delle opere più note. In essi si può già cogliere quel senso «senso meraviglioso del Vero che abbraccia le cose e gli uomini e li penetra fino all’ultima fibra », che egli amplificherà fino allo svelamento più crudo e ironico della bêtise e del grottesco triste dell’esistenza, e al contempo un lirismo innato, l’amore per le orge dell’immaginazione.
Nei suoi primi lavori la morte è onnipresente, protagonista come allegoria suprema ( La Femme du monde, del 1836), o sotto forma di riti funebri, cortei, carri che sfilano lentamente per le strade, suicidi e omicidi, riflessioni filosofiche, tombe, cinici becchini che maneggiano come manichini corpi senza vita, e studenti di medicina irriverenti che fumano e chiacchierano davanti ai cadaveri distesi sul tavolo anatomico. E sono soprattutto i cadaveri, orribili, spaventosi, per lo più in decomposizione, descritti realisticamente e morbosamente con uno spiccato e compiaciuto gusto per il macabro, che riapparirà in Salammbô, a costituire il fil noir di questi testi della gioventù, in cui le situazioni richiamano molto da vicino le visioni dell’ospedale. La sua innata inclinazione a frugare «il vero quanto più può», che ritroveremo anni dopo nella lenta e insistita agonia di Emma Bovary, mirabile sintesi della duplice natura flaubertiana, lirica e sognatrice da un lato, realista, scettica e ironica dall’altro, sfocia nell’adolescenza in numerose descrizioni di cadaveri, inquietanti perché materializzati, concretizzati da notazioni di carattere acustico, visivo, olfattivo, che ne rendono tangibile la presenza. Ne vediamo un esempio fra i tanti nel racconto filosofico del 1836 Un parfum à sentir ou Les Baladins,
dove la protagonista, una povera e laida saltimbanca che si suicida per amore gettandosi nella Senna, viene recuperata dalle acque ormai cadavere in decomposizione, ed esposta all’obitorio sotto lo sguardo di due «discepoli di Esculapio»: «I suoi vestiti erano strappati e lasciavano intravedere le membra smagrite. [ ... ] Il sole stava tramontando e uno degli ultimi raggi, filtrando attraverso le sbarre dell’obitorio, venne a colpire i suoi occhi semichiusi, infondendo loro un singolare sfavillio. Quel corpo [ ... ] gonfio, verdastro, lasciato lì sulla pietra umida, era terribile e faceva male alla vista.L’odore nauseabondo che esalava da quel cadavere a brandelli, e che faceva allontanare i passanti oziosi, attirò due studenti di medicina».
A venticinque anni Flaubert sperimenta in prima persona il dolore e il lutto, con la scomparsa del padre, successivamente della sorella, e infine, nel 1848, dell’amico più caro, Alfred Le Poittevin. Ne parlerà, nelle lettere e negli scritti intimi, con un tono diverso rispetto a quello dei testi giovanili, sofferto ma sereno, maggiormente lirico e carico di rêveries intense e dolorose. Ha ormai accettato il distacco, e l’ha convertito in «un’amarezza infinita, un retrogusto del nulla che nulla cancella» (lettera del 1859). Ma nell’accanimento sul povero corpo di Emma, che tocca l’apice nella celebre scena in cui alla protagonista, senza più vita, viene sollevato il capo da cui fuoriesce «come un vomito, un fiotto di liquido nero», metafora fluida del dissolvimento del tutto, si può scorgere ancora una volta, come si legge nel testo autobiografico del 1838
Agonies, «quello stesso istinto naturale che porta l’uomo ad appassionarsi per ciò che esiste di orribile e di amaramente grottesco ». Morta la sua eroina, e forse rigettatasublimata una volta per tutte, nell’Arte, l’esperienza e il peso delle morti viste all’Hôtel-Dieu, Flaubert non insisterà più con tanta crudeltà sulla fisicità dei cadaveri, e la fatal quiete diventerà occasione di meditazioni filosofiche che, a partire dallo stupore, giungeranno alla comprensione rassegnata del «sopraggiungere del nulla» ( Madame Bovary ). Piuttosto che il celebre giudizio emesso da Sainte-Beuve, il quale sentenziò all’uscita di Madame Bovary che Flaubert usava la penna «come altri il bisturi », è senz’altro più valido, in questo caso, ciò che dilui scrisse l’amico Du Camp:«Siè detto che era un realista, un naturalista, una specie di chirurgo letterario che seziona le passioni e fa l’autopsia del cuore umano. Era il primo a sorriderne: lui era un lirico », un lirico dallo spirito fine, agile e «perspicace per quanto riguarda il comico».
All’interno degli scritti giovanili si trova un personaggio, uno solo, Djalioh (protagonista di Quidquid volueris , del 1837) che, morto per un evento cruento e decisamente frénétique, Flaubert non si diverte a sezionare, o a veder sfilare su un carro funebre davanti alla gente più o meno indifferente. Ma non è un uomo, o meglio non lo è come gli altri. una specie di mostro, metà uomo e metà scimmia, frutto di un esperimento scient ifico: un incrocio f r a u n a schi ava nera e un orango- tango. Metafora dello scrittore, che poneva l’artista «ai margini dell’umanità », definendolo «una mostruosità, qualcosa al di fuori della natura», a Djalioh non toccheranno gli ironici onori dei funerali degli altri protagonisti flaubertiani, non giacerà senza vita sul tavolo dell’obitorio davanti agli occhi disgustati degli spettatori e dei lettori. Il suo scheletro, «superbo, verniciato, lucidato, curato, magnifico», sarà esposto nel gabinetto di zoologia, in un Museo. Come il suo autore, «creatura incompleta», romantico o realista, sognatore, lirico, o anatomista del cuore e delle passioni umane, « bête ou spirituel», come egli stesso si definisce, vivrà in eterno, e farà dire e scrivere di sé, post mortem, « quidquid volueris» • NATO ALL’HOTEL DIEU - Il 4 febbraio si apre a Rouen, presso il Musée Flaubert et d’histoire de la médecine, l’esposizione «levé dans les coulisses d’Esculape: la jeunesse de Gustave Flaubertà l’Hôtel-Dieu de Rouen &Restauration de la chambre natale de Gustave Flaubert». La mostra si sviluppa sulla base di documenti di archivio ritrovati al Museo e alla Biblioteca municipale di Rouen, e delle lettere dello scrittore. La camera di Flaubert, aperta al pubblico per la prima volta nel 1923, è stata ora restituita alla sua disposizione originaria grazie alle ricerche di Arlette Dubois, che permettono di avere un’immagine piùprecisa della ripartizione delle stanze dell’edificio.
All’Hôtel-Dieu il padre di Flaubert era stato capo-chirurgo, abitandovi all’interno con la famiglia, dal 1818 al 1846. Dopo la morte del fratello Achille (1882), che aveva seguito le orme paterne, la casa natale è stata trasformata dapprima in una residenza per gli allievi di medicina (e la camera dello scrittore era un laboratorio di istologia) e poi nel museo di Storia della medicina tuttora esistente.
http://flaubert.univ-rouen.fr/ biographie/hotel_dieu/index.html
Due amori e due bare
Una ragazza è sposata al duca d’Harmans. Unione tiepida da parte del marito, viva e calda da parte di Louisa. Lanciata nel gran mondo, aveva respinto parecchi [sic]; uno solo venne accettato in qualità di amico. Questi ebbe pietà dei maltrattamenti del marito. La amò per compassione e successivamente per amore. Lei se ne accorge, gli ordina di andarsene, ma poi accetta di tenerlo con sé come amico. Henri d’Harmans ha un’amante in casa, che è molto gelosa di sua moglie; lentamente lei le ruba tutto ciò che possiede. Il marito non la porta più nel bel mondo. Lei deperisce di giorno in giorno. Ma Amélie, cortigiana parvenue e invidiosa di Louisa, le mette ogni giorno dell’arsenico nel latte. Alla fine, [Louisa] muore; subito arriva la giustizia. Ernest, che si era accorto soltanto quel mattino dell’arsenico, davanti al cadavere della donna uccide Henri, che lo aveva denunciato come colui che la aveva avvelenata. Lo uccide dicendo: «Tu sei l’assassino, io il boia».
Lo sguardo del padre chirurgo
Mathurin, medico-filosofo del racconto giovanile I funerali del dottor Mathurin (1839), anticipa i tratti del dottor Larivière di Madame Bovary, chiamato al capezzale di Emma nell’estremo tentativo di salvarla. Interessante il particolare dello sguardo come una sonda magnetica-bisturi, che fa supporre che in questi due medici Flaubert abbia ritratto il padre.
[…] e non v’era modo di sfuggire al giudizio del suo sguardo penetrante e sagace; quando alzava la testa, abbassava le palpebre, e vi guardava di lato sorridendo, avvertivate la sensazione che una sonda magnetica vi entrasse nell’anima e ne frugasse ogni recesso. […] Mathurin […] attraverso il vestito vedeva la pelle, sotto l’epidermide la carne, sotto l’osso il midollo, ed estraeva da tutto ciò brandelli sanguinanti, putredine del cuore, e sovente su corpi sani scopriva un’orribile cancrena. (I Funerali del dottor Mathurin, 1839)
Apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita dal grembiule di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di terapeuti-filosofi che, fanaticamente innamorati della loro arte, la esercitavano con esaltazione e sagacia. […] Lo sguardo, più tagliente dei suoi bisturi, scendeva dritto nell’anima e disarticolava ogni menzogna sgombrando il campo da pretesti e pudori. (Madame Bovary)
I commessi Bouvard e Pécuchet
Una lezione di storia naturale (genere «commesso»), del 1837. Bizzarro ritratto del commesso come «genere animale», anticipa con segni ironici e distintivi del grottesco i due bonshommes Bouvard e Pécuchet, che prima di godersi la pensione erano, appunto, commessi.
Il suo berretto da lontra faceva propendere per la vita acquatica, e la finanziera dai lunghi peli bruni e il gilè di lana spesso quattro pollici provavano senza dubbio che si trattava di un animale dei paesi settentrionali. […] In estate porta un cappello di paglia e un pantalone di nanchino, che ha cura di preservare dalle macchie di inchiostro stendendovi sopra il fazzoletto. Scarpe di castoro, e gilè di telaccia. Indossa [estate e inverno] un finto colletto di velluto.
[…] In ufficio […] è appollaiato sul suo scrittoio, la penna sull’orecchio sinistro; scrive lentamente, assaporando l’odore di inchiostro che vede con piacere stendersi su un foglio immenso; canticchia tra i denti ciò che scrive, e fa una musica continua con il naso; ma, quando ha fretta, butta giù con ardore i punti, le virgole, le lineette, le grafie eleganti e le firme svolazzanti. Questo è il colmo del talento. (Una lezione di storia naturale, genere «commesso», 1837)
Apparvero due uomini.
Uno veniva dalla Bastiglia, l’altro dal Jardin des Plantes. Il più alto, vestito di tela, camminava con il cappello all’indietro, gilè sbottonato e cravatta in mano. Il più basso, con il corpo che spariva in una finanziera marrone, teneva la testa china sotto un berretto con la visiera a punta.
[…] Bouvard, che era solito lavorare sdraiato sullo scrittoio e con i gomiti in fuori per meglio arrotondare i suoi corsivi, esalava una specie di fischio strizzando con aria maliziosa le grosse palpebre. Pécuchet, appollaiato su un grande sgabello impagliato, curava sempre i tratti verticali della sua scrittura allungata – ma gonfiando le narici stringeva le labbra […].
[…] Pécuchet, grazie al cielo, aveva conservato un vecchio abito da cerimonia con il colletto di velluto, due cravatte bianche e dei guanti neri. Bouvard mise la sua finanziera blu, un gilè di nanchino, scarpe di castoro, ed erano molto emozionati quando attraversarono il paese. (Bouvard e Pécuchet, 1880)
Commenti, scelta di brani e traduzioni delle opere giovanili di Gustave Flaubert a cura di Chiara Pasetti.. L’Edizione francese di riferimento è «ÿuvre de jeunesse» in «ÿuvres complètes I», «Bibliothèque de la Pléiade», 2001.