Stefania Rossini, L’espresso 28/1/2010, 28 gennaio 2010
INTERVISTA A VALERIO MASTANDREA
Valerio Mastandrea non smette di indossare quel disincanto mansueto che gli calza come una seconda pelle. Anche adesso, anche dopo una cinquantina di film non sempre memorabili e la recente affermazione come protagonista de "La prima cosa bella", il film di Paolo Virzì che sta ottenendo un meritato successo di critica e di pubblico. Un antidivo che si ritrova divo quasi a sua insaputa, per aver saputo dare faccia e toni al personaggio di Bruno, uomo amaro e indifeso, ferito e ritroso, eppure amabile. Come sembra essere anche lui nella vita reale, ragazzo di periferia che si è tirato su un’esistenza a propria misura, calcando da giovanissimo il palcoscenico del "Maurizio Costanzo show" come adolescente problematico, cercando poi senza affanno un suo personale spazio dove far convivere carriera cinematografica e senso di sé.
Ora però il successo è arrivato, Mastandrea. Come ci si sente all’apice della carriera? «Si sopravvive solo se si pensa di non essere arrivati. Io ho sempre basculato, nell’andatura e nel lavoro. Cammino come il mio setter e scelgo di fare cose nuove, non garantite, che mi faranno sempre andare su è giù, a destra e a sinistra. Mi va bene così». Ma è contento o no?
«Lo sono, eccome. Soprattutto per il riscontro del pubblico. Questo è un film che rimarrà a lungo in sala e a me non è capitato spesso. Ormai ho capito che non è sufficiente combattere per il cinema da fuori, con prodotti di nicchia. Bisogna anche accettare le leggi del mercato e usarle. Solo così la battaglia ha spessore».
Lei però non fa molto per promuovere i suoi film. Non la si vede quasi mai in televisione.
«Perché mi vergogno. Non sono bravo a vendere un prodotto, così mi imbarazzo e balbetto. Una volta Mara Venier, spazientita, mi disse in diretta: "Ma che ci sei venuto a fare qui?". Aveva ragione perché ero imbranatissimo, ma quest’idea che un attore in promozione deve diventare una mignotta pronta a tutto, non mi va giù. Per fortuna che c’è Pippo Baudo».
una fortuna? « un sollievo. Lui è uno della vecchissima scuola, come Pietro Garinei che ho conosciuto bene quando mi ha diretto nel "Rugantino". Con Baudo non rischi domande complicate e fumose. Lui se parla di un libro l’ha letto, se parla di un film l’ha visto».
Lei in tv non fa neanche l’attore. Niente fiction, o serial.
«Mi hanno offerto di tutto, a cominciare da "Distretto di polizia" un paio di volte. Ma proprio non mi piace. In tv il lavoro è tanto ripetitivo che sembra di stare in un ministero. Ho fatto giusto un po’ di pay tv, perché lì è possibile un linguaggio più sperimentale».
Eppure ha cominciato proprio dal piccolo schermo, come ospite nella trasmissione di Costanzo.
«Sì, lì ho perso l’anonimato. E non è detto che mi abbia giovato nella carriera da attore: per molto tempo sono restato legato alla mia prima immagine».
Che era quella di un ragazzo dolente, contorto, afasico.
«Dica pure: imbranato. Ho voluto mettere la testa fuori in modo esagerato. Ho scritto una lettera, anzi un dialogo tra due parti di me per fare più effetto, e sono andato a raccontare il mio dolore mentale, i desideri di suicidio, gli attacchi di panico. In qualche modo mi è servito. Oggi penso che sia stata una grande seduta di psicoanalisi pubblica».
Ha mai fatto quella privata
«Certo, anche se non proprio in modo regolare, e con due terapeuti diversi. Con uno da adolescente per frenare gli attacchi di panico, più tardi con un altro per tirare qualche somma a voce alta».
E che cosa ha capito?
«Che sono uno che si accorge dei passaggi. La vita è fatta di passaggi, ma non tutti li percepiscono. Da Costanzo ho consumato quello tra l’adolescenza e l’età adulta, cercando di smaltire la sofferenza di non aver avuto una famiglia regolare, di essere cresciuto senza una figura maschile dato che i miei si separarono che ero nato da poco».
Tutto qui? Sembrava che nascondesse chissà quali abissi.
«Guardi che ora sembra tutto pacifico, ma la mia è stata la prima generazione a subire il cambiamento della famiglia. Sono nato nel ’72, mia madre era una convinta femminista e una militante di Democrazia proletaria, e ha fatto scelte conseguenti. Ma io, un po’ come il Bruno del film, sono stato per anni il genitore dei miei genitori».
Ora va meglio?
«Ora faccio il figlio. Quello che si porta la famiglia allargata, quasi una carovana perché tutti hanno ottimi rapporti con tutti, a festeggiare un film in uscita a Venezia. Poi me li ritrovo immobili per ore, seduti in un divano, come alle feste dei bambini».
Mastandrea, lei è un uomo di bell’aspetto. Qualcuno le trova anche somiglianze con George Clooney. Come mai non compare mai nelle cronache rosa?
«Forse perché so essere dissuasivo. Quest’estate ho fermato un fotografo che mi aveva ripreso all’aeroporto: "Ma perché non fai le foto a quelli veri?". Lui mi ha risposto: "Perché, tu non sei vero?". E io: "Sì, ma tu devi andare da quelli che vivono di queste cose e ci mangiano. Ci mangi pure tu perché per me ti danno al massimo cento euro, per qualsiasi superfigo ne prendi 500". L’ho convinto, però certe volte convinco anche senza saperlo».
Per esempio?
«Festival di Cannes. Cammino da solo sul red carpet, un fotografo pronto allo scatto mi dà un’occhiata e chiude la macchina. Neanche a sprecarci uno scatto. Non importa, in fondo è da poco che sono libero dai sensi di colpa».
Colpa per che cosa?
«Per un mestiere tanto più privilegiato rispetto ad altre figure del mondo del lavoro. Deve essere un retaggio dell’educazione di mia madre, ma per anni ho insistito per aiutare le maestranze sul set. Finché un macchinista non mi ha detto: "E basta! Tu fa il lavoro tuo che io faccio il mio"».
Si sente ancora tanto di sinistra?
«Io penso che questo Paese è sempre più diviso tra "noi"e "loro". Io so da che parte sto, ma loro no. Le sembro confuso?».
Insomma...
«Invece non sono confuso per niente. Chi vota a sinistra non lo è. Quelli che siedono in Parlamento invece non sanno più come orientarsi. Guardi quello che hanno inventato in Puglia pur di non seguire Vendola. Ma non voglio parlare in politichese. Per me la politica è ormai altro. il tentativo di far combaciare il lavoro con l’urgenza di dire qualcosa. quello che ho fatto con un corto sulle morti bianche».
Fra non molto lei avrà quarant’anni. Non pochi per un "giovane attore". un traguardo che la preoccupa?
«Al contrario, mi entusiasma perché ci arrivo dopo una svolta vera, di quelle che non pensavo mai di riuscire a fare: una famiglia. Ho una compagna con cui vivo da tre anni e tra un mese arriverà un bambino. Non vedo l’ora che accada. Voglio misurarmi con le cose reali dopo otto mesi di gravidanza tutti teorici: ore e ore a discutere sulle ansie, sulle paure, sulle aspettative. Però ho fatto anche una grande scoperta».
Quale?
«Ho scoperto l’inutilità del maschio. Non che prima non conoscessi il potere della donna, ma in questa fase la sua funzione di creatrice e custode è allucinante. Mi ha rigettato nella primordialità della differenza tra uomo e donna, nella nostra animalità complicata però dal pensiero astratto».
Mastandrea, lei è un intellettuale?
«Chi lo sa... Certo sono uno che non può smettere di pensare».