Lorenzo Mondo, Tuttolibri-La Stampa 30/1/2010, pagina VII, 30 gennaio 2010
A FERRO E FUOCO LA MERIDIONALE VIA ALLA LIBERTA’
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: ”Viva la libertà!”».
E’ l’attacco del memorabile racconto Libertà, scritto da Giovanni Verga nel 1880 e confluito due anni dopo nelle Novelle rusticane. Egli si era ispirato, senza nominarli espressamente, ai «fatti di Bronte». Ai primi di agosto del 1860, in quel paese alle falde dell’Etna una torma di popolani, eccitati dai proclami di Garibaldi che promettevano libertà e uguaglianza, massacrarono con particolare efferatezza 16 appartenenti alle classi agiate (comprese donne e bambini) incendiando e saccheggiando le loro abitazioni. Oltre a vendicare antiche offese, intendevano dividersi il latifondo dei Nelson: erano questi gli eredi del famoso ammiraglio inglese che il regime borbonico aveva ripagato con un feudo per avere schiacciato la rivoluzione giacobina del 1799.
Spietata fu la repressione di Nino Bixio, inviato da Garibaldi a ristabilire l’ordine. Cinque presunti rivoltosi furono fucilati dopo un processo sommario: tra loro, un matto inoffensivo e l’avvocato Nicola Lombardo, un vecchio liberale, infamato dall’accusa di essere un agente borbonico, colpevole semmai di non avere saputo frenare gli eccessi dei contadini ebbri di sangue. Molti altri coinvolti nella sommossa furono avviati, dopo dure condanne, alle galere del Regno d’Italia.
Lo studioso Benedetto Radice sosterrà poi che a Bixio la rivoluzione «fu propizia per salvarlo forse da una vita ignobile», ma Giuseppe Cesare Abba, uno dei Mille, riserva la sua indignazione agli assassini che, intesi all’opera, inneggiavano a Garibaldi.
Verga aveva ben presente, scrivendo, il libro di Abba Da Quarto al Volturno, ma non esprime giudizi, limitandosi alla eloquente nudità dei fatti, contrapponendo crudeltà a crudeltà. Leonardo Sciascia gli imputa tuttavia (in un saggio compreso nella Corda pazza) di avere occultato e rimosso certi aspetti indifendibili della repressione, espungendo in particolare dallo scenario la figura dell’avvocato Lombardo, vittima sacrificale di quelle tragiche giornate. Gli sembra che «in Libertà le ragioni dell’arte, cioè di una superiore mistificazione che è poi superiore verità, abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto».
In realtà, il Verga scrittore non sottovaluta - segno di equanimità da parte di un conservatore onesto- le motivazioni dell’atroce eccidio. Le mette in bocca ai popolani che, mentre abbattono con le falci e le accette i «cappelli» (così erano chiamati i notabili) rammentano le «nerbate» subite dai campieri, le complicità di preti, sbirri, guardaboschi con i baroni che li costringono a una esistenza di fame. Egli dà voce inoltre allo smarrimento dei carcerati, quasi sepolti vivi, che sono convinti di avere risposto legittimamente all’appello della rivoluzione propagata dai fucili delle «camicie rosse»: «In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!...». E lo stesso Abba, che non prova indulgenza per gli insorti di Bronte, manifesta turbamento davanti a certi spettacoli di miseria: in Sicilia - scrive - «vi sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. Pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un linguaggio come questo della poveraglia di qui».
Il racconto Libertà, al di là delle intenzioni di Verga, può essere collocato a buon diritto tra le testimonianze che hanno alimentato fino a ieri il dibattito sulla questione meridionale (che oggi sopravvive con diversità di tematiche e di accenti). Basti pensare alle dure e talora sanguinose lotte contadine, condotte nel dopoguerra all’ombra della mafia e del separatismo, per ottenere più dignitose e meno oppressive condizioni di vita, l’eguaglianza almeno di fronte alla legge. Ma a prevalere, in Verga, è il pessimismo nei confronti della storia, espresso lapidariamente dalla considerazione che a Bronte, tornata la pace, tutti, contadini e galantuomini, «erano tornati a fare quello che facevano prima».
Resta da chiarire il senso da attribuire alla formulazione, abbastanza acrobatica di Sciascia sulla «superiore mistificazione», che si risolverebbe in superiore verità, del racconto di Verga. Non sembra che debba ridursi ai soli elementi formali, come la stringatezza, il movimento concitato, la vividezza dei primi piani che sfumano nella cupezza dello sfondo... Con le sue omissioni e semplificazioni, Verga finisce per raccontare un’altra storia: non solo una rivoluzione tradita dai compromessi, ma la condanna a cui devono sottostare tante rivoluzioni, passate e future, confrontandosi con laceranti e perniciosi oltranzismi. In altre parole, la rivoluzione che divora i suoi figli.
Osserva Jasper Ridley, trattando di Bronte, che «come ogni capo rivoluzionario, Garibaldi, una volta al potere, represse gli altri rivoluzionari con metodi spietati almeno quanto quelli dei vecchi regimi». E’ detto da uno storico che non lesina la sua ammirazione e simpatia per il condottiero dei Mille. Il Verga di Libertà avrebbe probabilmente consentito alle sue ragioni.
Lorenzo Mondo