Giampaolo Pansa, Libero 29/1/2010, 29 gennaio 2010
I PISELLI ANTI-STALINISTI DEL GENTILUOMO SARAGAT
Chi erano i piselli? Nessuno se lo ricorda più. Eppure hanno avuto un posto importante nella politica italiana del dopoguerra. L’etichetta derivava dalla sigla del loro partito, il Psli, ossia Partito socialista dei lavoratori italiani. Lo guidava Giuseppe Saragat, che si era staccato dal Psi di Pietro Nenni. Era accaduto nel gennaio 1947, con la scissione di Palazzo Barberini. Da quel momento, i socialisti e soprattutto i comunisti di Palmiro Togliatti avevano cominciato a sputare sui piselli. Considerati traditori della classe operaia e servi della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi.
In realtà, Saragat e i dirigenti del Psli avevano dimostrato di avere la vista lunga.
Non gli piaceva il sovietismo di Togliatti e di Nenni. Lo consideravano un errore storico che avrebbe schiantato la sinistra italiana. Ne ebbero una conferma subito, con le elezioni del 18 aprile 1948. Quando il Fronte democratico popolare venne sconfitto dalla Dc.
Nella primavera del 1948 andavo per i tredici anni. Ma sapevo di politica ben più di un ragazzo di oggi. Ne imparavo un poco ogni sera. Ascoltando le discussioni che si aprivano in casa, nel dopocena. La maggioranza dei maschi era socialista, tranne uno zio che aveva la tessera del Pci. Mia madre Giovanna li ascoltava sorniona, senza intervenire. E penso che, nel segreto dell’urna, abbia poi scelto lo Scudocrociato.
Accusati di essere dei voltagabbana
In quei dibattiti, i piselli venivano accusati di essere infami voltagabbana. A difenderli non c’era nessuno. Poi emerse una loro imprevista tifosa: la Tilde, nostra vicina di casa. Ancora single a 35 anni, con qualche amore finito male, di mestiere faceva la bustaia, ossia cuciva gli indumenti intimi per tante clienti facoltose. Una professione adatta a lei: piccoletta, ben fatta, spigliata, sempre al corrente di molti segreti della nostra città di provincia.
La Tilde non poteva soffrire il Fronte democratico popolare, che chiamava con sarcasmo «il Frode». Sul conto di Togliatti strillava: « un santo in casa e un diavolo in chiesa. Porterà i suoi comunisti a schiantarsi contro la Dc!». Nenni le piaceva anche di meno: « molle come un fico. Dice paroloni a vuoto. Per di più con quell’accento da romagnolo sbevazzone, tale e quale il Mussolini».
Al contrario, era innamorata di Saragat, che lei chiamava ”Pinin”. Dichiarava di essere una pisella con tanto di
tessera. Ma la sua passione vera era Umberto Colosso, un professore socialista, astigiano di Belveglio, che durante la guerra parlava da Radio Londra. Ascoltato dalla Tilde con un’attenzione religiosa.
La bustaia pazza per Calosso
La bustaia aveva cominciato a leggere Calosso sul ”Sempre Avanti!” di Torino. E quando lui aveva contribuito a fondare il Psli, per amor suo la Tilde si era iscritta al nuovo partito di Saragat. Del compagno Umberto, lei ricordava un motto: ”Il povero è colui che ha già dato”. E lo commentava così: «In quelle otto parole c’è tutto il socialismo che mi piace. E pensare che Togliatti ha avuto il tupè di dire che ogni riga di Calosso è copiata pari pari dalla propaganda nazista del tempo di Hitler!».
Ho ritrovato l’avventura dei piselli in un bel libro di Michele Donno: Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il Psli (1945-1952) appena uscito da Rubbettino (pp. 542, euro 30). Donno è uno storico di 32 anni, ricercatore alla Luiss di Roma. Ha due doti: l’imparzialità e una scrittura limpida. Ho letto il suo lavoro con il piacere di ripercorrere un’epoca politica ricca di passione. E non mercantile come quella odierna.
Se penso al mio lavoro di cronista, ringrazio la lezione scettica di mia madre a proposito dei partiti imperanti nel primo dopoguerra. Non ho mai considerato i piselli di Saragat dei cattivi soggetti. Anche perché, a parte la Tilde, ne ho conosciuti bene due. Ed entrambi hanno contato molto nel mio percorso di vita.
Il primo è Guido Quazza, il docente di Storia contemporanea che mi portò alla laurea, nel corso di Scienze politiche a Torino. Nato nel 1922, durante la guerra civile aveva comandato in val Sangone una brigata partigiana autonoma. Dopo la Liberazione si era iscritto al Psi e in
seguito aveva aderito alla scissione socialdemocratica, entrando nella direzione del Psli.
Era un giovane professore molto generoso con gli allievi. Li seguiva passo dopo passo nella stesura della tesi di lau-
rea, con sollecitudine affettuosa. Soltanto anni dopo scoprii come lavorava Quazza. Per ogni tesi, stendeva una nota composta di un giudizio generale e di molteplici osservazioni particolari. La nota gli serviva per il confronto con lo
studente e poi per la discussione di fronte alla commissione di laurea.
L’altro pisello al quale devo molto è Italo Pietra, mio direttore al ”Giorno”. Era genovese, classe 1911, un uomo alto, massiccio, con i capelli precocemente bianchi. Da ufficiale degli alpini si era fatto tre guerre: in Etiopia, sul fronte occidentale e poi la terribile campagna in Albania e in Grecia. Dopo l’8 settembre, aveva partecipato alla Resistenza nell’Oltrepò pavese.
Non era per niente comunista, ma sapeva come trattare i capi delle formazioni garibaldine. Fu il primo comandante partigiano a entrare a Milano e conobbe Enrico Mattei, il futuro presidente dell’Eni che ne apprezzò subito l’intuito politico e la capacità di guardare lontano.
Il ruolo di Pietra nella scissione
Pietra era un socialista non fusionista, come si diceva nel 1945. Ossia contrario all’alleanza del Psi di Nenni con il Pci di Togliatti. E quando arrivò il momento, fu uno degli artefici della scissione di Palazzo Barberini. Non volle mai raccontarci quale parte avesse avuto nella nascita del Psli. Ma negli anni Sessanta manteneva ottimi rapporti con Saragat. E soprattutto con un altro dei personaggi che ho ritrovato nel libro di Donno: Alberto Simonini, classe 1896, deputato di Reggio Emilia, uno dei fondatori del Psli e segretario del partito sino al gennaio 1949.
Ma l’incontro che più mi è rimasto nella memoria è quello con Saragat. Era il settembre 1962, lui aveva 64 anni, la stessa età di mio padre Ernesto. Guidava il Partito socialista democratico italiano, l’erede del Psli. E nel dicembre 1964 sarebbe stato eletto presidente della Repubblica. Sul suo conto giravano cattiverie a tutto spiano: autoritario, scontroso, superbo. Ma io ho un ricordo opposto.
Saragat era in vacanza a Saint-Vincent, in Valle d’Aosta. Il direttore della ”Stampa”, Giulio De Benedetti, decise di intervistarlo e mandò me, un redattore alle prime armi. Venni preso dal panico, ma a mettermi tranquillo fu Carlo Casalegno: «Chiedigli questo e quest’altro. Però tieni conto che con Saragat le domande non servono. Il suo sarà un monologo. Tu sei rapido con gli appunti e te la caverai».
Consigli per la vita di un’altra politica
Infatti andò così. Ma il bello venne dopo. Terminato il monologo, recitato da baritono veloce, Saragat mi trattenne. E volle sapere dei miei genitori, del loro lavoro, del modo in cui mi avevano cresciuto. Poi decise di regalarmi qualche consiglio. ”Pinin” mi disse: «Visto che non sei di famiglia ricca, se vuoi essere un giornalista libero devi condurre una vita modesta e risparmiare al limite della tirchieria. La vita modesta ti aiuterà a non dimenticare da dove sei venuto. E ti vaccinerà contro i passi indietro che potresti fare. Soprattutto non devi chiedere piaceri a nessuno, meno che mai a un politico. Questo ti consentirà di scrivere cattiverie su chiunque. E se risparmi, potrai andartene da qualsiasi giornale. Piantando baracca e burattini, senza ritrovarti come un gatto bagnato sul marciapiede».
Altri tempi e altri politici. Oggi, se intervisti un big della casta, devi stare attento a come ti muovi. Perché di solito è lui a chiederti un favore.