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 2010  gennaio 30 Sabato calendario

CONSORTE: SACRIFICATO DA D’ALEMA E VELTRONI

Lo scheletro nell’armadio riceve nella sua casa di via dei Gombruti, nel centro di Bologna. Giovanni Consorte, l’uomo della finanza rossa, l’ex amministratore delegato di Unipol che sognava una banca per i «suoi» Ds. «E per il Paese» aggiunge. Lunedì prenderà il treno all’alba, destinazione Milano. Comincia il processo sulla scalata alla Banca Nazionale del Lavoro, dove è imputato per aggiotaggio con l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio e altre 19 persone. Cominciamo da Bologna? «Sono amico di Flavio Delbono. Ma ha commesso una grave leggerezza».
L’inchiesta che lo vede coinvolto è tutt’altro che leggera.
«Si riferisce alla frase di Sergio Cofferati sul sistema di potere che governa la Regione?» Esattamente. «Spero che le ipotesi in circolazione siano infondate. Allo stato, quelle parole sono veleni che danneggiano Bologna, e arrivano da un sindaco che nessuno rimpiange». Di cosa ha bisogno questa città? «Serve un candidato di qualità. Con una base culturale e professionale di rilievo. Che abbia gestito aziende, situazioni complesse, non chiacchiere. Deve essere conosciuto e stimato, e magari andare bene a parte dell’opposizione».
Anche qui il Partito democratico ha bisogno di larghe intese?
«Il Pd è un partito non coeso, che non esprime un indirizzo chiaro. Gli effetti si vedono purtroppo anche a Bologna. E tutto questo ha una data d’inizio...».
Mi faccia indovinare: estate 2005?
«Certo. La guerra contro la scalata a Bnl. Il Pd non era ancora nato, ma la sua mancanza di una linea e di una azione politica precisa ha origine da quella vicenda. Sta per uscire un libro, curato dal professor Paolo Pombeni e da me, che individua l’anomalia italiana nell’assenza di un partito riformista, laico, socialista, garantista di tradizione europea».
E tutto nascerebbe dall’«abbiamo una banca»?
«Anche da quella storia, che non era un vezzo di Gianni Consorte. L’operazione fu approvata all’unanimità, con applauso, dai Cda di Holmo, Unipol e Finsoe. Ma dopo il lancio dell’Opa su Bnl si scatenò la reazione delle forze economiche e politiche».
Quali?
«Prenda l’organigramma dei vertici del Pd alla sua nascita e si dia la risposta». Erano amici suoi. «Alcuni. Rutelli e Parisi, anche sul suo giornale, tirarono fuori la questione morale. Si trattava in realtà di una bella operazione industriale. Ma la componente cattolica del futuro Pd posso capirla, temeva un eccessivo potere degli ex Ds. Le dinamiche delle attuali difficoltà del Pd erano già presenti». E loro, gli ex Ds?
«Veltroni, Fassino, D’Alema: mi hanno abbandonato. Sacrificato sull’altare del primato della politica. C’era da far nascere il Pd, e amarzo 2006 c’erano le elezioni».
Per questo ha chiesto che depongano al suo processo?
«Oltre a quella giudiziaria, per la quale mi batto nei tribunali, voglio che sia ristabilita la verità storica e politica». Nell’attesa, qual è la sua versione? «Una parte dei Ds mi mollò, ragionando sulla base dei rapporti di forza presenti nel partito e su quelli che si sarebbero determinati con la costituzione del Pd. Inoltre, alcuni Ds si prestarono ad un ragionamento da comunisti. L’eterna guerra tra Roma e l’Emilia rossa». Può spiegarsi meglio? «Con Unipol-Bnl sarebbe nato il terzo gruppo bancario italiano, dieci milioni di clienti. Ma questo avrebbe spostato l’asse del potere su Bologna e sull’Emilia, la regione con la più alta percentuale di risparmio e la maggior diffusione della piccola-media impresa». Perché avrebbero dovuto averne paura?
«La nascita di quel gruppo, radicato in un territorio riformista, avrebbe creato una realtà forte, con la quale gli altri centri di potere economico e politico avrebbero dovuto fare i conti. Questo non era gradito a una certa parte dei Ds e della sinistra». I nomi. «Rutelli, Parisi, Amato, Veltroni, Morando, Bertinotti, e molti altri. Temevano che Unipol-Bnl avrebbe reso più forte Fassino e D’Alema, all’epoca ai vertici del partito».
Avevano torto?
«Quei due non sapevano nulla dell’operazione. Facevano il tifo, ma questo è un altro discorso».
E l’ormai celebre frase di Fassino, "abbiamo una banca"?
«La sentirete al processo, quella telefonata, nella sua interezza. Era entusiasmo, non complicità. Quando esplose il sisma, non ho avuto una chiamata, una parola. Ma adesso ho chiesto che vengano in aula a motivare il loro comportamento successivo al lancio dell’Opa».
Appunto, il processo. Reati, mica politica.
«Dopo le Corti d’Appello di Roma e Genova, venerdì anche quella di Bologna ha bocciato la tesi del patto occulto sulla scalata Bnl. Non c’era nulla di irregolare».
Nulla, a parte contratti e patti sottratti alle comunicazioni di mercato...
«Tre diversi tribunali, altrettante assoluzioni, finora. Accuse infondate».
Anche lei con questa storia dell’accanimento giudiziario?
«Dico solo che aMilano il capo di imputazione è stato cambiato in sede di udienza preliminare. Non succede spesso».
Ci sarebbero anche quei 25 milioni di Euro trovati all’estero.
«Erano cinque, invece. Ho dimostrato che sono frutto delle consulenze fatte ad Hopa su Telecom, pagate estero su estero. Gli altri 20 fanno riferimento a operazioni compiute correttamente in Italia». Venticinque milioni? «Sa quanto hanno guadagnato da quell’operazione? Un miliardo e 750 milioni. Il compenso era commisurato al risultato. Non mi sento in colpa per aver prestato consulenze esterne alla mia azienda, che per prima ne ha beneficiato».
Non teme di passare per un uomo che cova rancore?
«Non ce l’ho con nessuno. Ma la mia figura è stata rimossa in puro stile stalinista. Addirittura è stata fatta circolare la voce che la mia malattia, un tumore alla gola, fosse di carattere "diplomatico"».
Considera il legame politica-affari come un dogma?
«Parliamoci chiaro: potere economico e politico non sono mai disgiunti. Senza il secondo non si va da nessuna parte, come dimostra il fallimento dell’operazione Unipol-Bnl. Ma fu un errore, soprattutto dei Ds». Un’occasione mancata? «L’occasione della vita, e non della mia. Avremmo potuto sostenere una politica degli investimenti e del credito soprattutto a favore della media impresa, in Emilia-Romagna e non solo. Saremmo diventati un braccio finanziario a sostegno del governo, e mancava poco alle elezioni del 2006 vinte dal centrosinistra. I primi ad affossare tutto sono stati proprio i potenziali beneficiari, i dirigenti del costituendo Pd. Devono delle spiegazioni, a me e ai giudici. Spero per loro, e per il Paese, che siano convincenti».
Marco Imarisio