Federico Fubini, Corriere della Sera 30/01/2010, 30 gennaio 2010
ATENE E IL RISCHIO DEBITO IN EUROPA
Ford to New York: drop dead («Ford a New York: schiatta») è uno dei pochi titoli di giornale autenticamente immortali del XX secolo. Il New York Post del 29 ottobre 1975 condensava così il rifiuto della Casa Bianca di Gerard Ford di salvare la Grande Mela dalla bancarotta. Era un messaggio insieme di forza politica e responsabilità di bilancio: anche un presidente americano debole come Ford poteva permettersi un crac «locale» così spettacolare, occasione per un richiamo ai doveri di ognuno di rispondere dei propri eccessi finanziari.
Ma se ora qualche giornale europeo volesse tentare sulla Grecia un titolo magari non immortale, ma che duri almeno qualche giorno, sarebbe in imbarazzo. Forse dovrebbe provare con: «Bruxelles a Atene: schiatta, ma tra un po’, perché forse ti salviamo, ma non subito». Meno memorabile. Soprattutto meno chiaro agli autori stessi del messaggio, per non parlare dei mercati internazionali e dei risparmiatori esteri, del governo di Atene, dei contribuenti ellenici e di tutto il resto del mondo che sta seguendo perplesso la vicenda.
Se la Grecia fosse un’impresa, si ritroverebbe oggi in una situazione che Democrito di Abdera 25 secoli fa avrebbe definito un’aporia: un passaggio impraticabile, una strada senza uscita, o un interrogativo senza risposta. Non è tanto perché il nuovo governo socialista, insediatosi a fine ottobre, ha scoperto che il deficit pubblico in realtà era doppio di quello dichiarato dalla precedente amministrazione conservatrice («nemesi», avrebbe osservato il tragediografo Eschilo, di precedenti falsi in bilancio a schieramenti invertiti). Né solo perché il debito è ormai il più alto d’Europa rispetto alla taglia dell’economia, da anni il risparmio privato è risibile, o perché il Tesoro nel 2010 deve rifinanziarsi per quasi 60 miliardi di euro, in gran parte entro giugno: a maggio, non è escluso il rischio di una crisi di liquidità nella quale la spesa quotidiana della macchina statale diverrebbe un problema. I mercati l’hanno fiutato. Ieri pomeriggio a Davos il premier George Papandreou, dopo aver parlato a porte chiuse con Dominique Strauss-Kahn del Fondo monetario internazionale, ha dichiarato che la Grecia è pronta a «dare il sangue»; gli investitori avevano già iniziato a chiederglielo: da giorni gli interessi effettivi sui titoli del Tesoro di Atene in scadenza nel 2020 devono aggirarsi intorno al 9%, per trovare compratori.
Ma, appunto, l’aporia è in un certo senso a monte. Perché se la Grecia fosse un’azienda sarebbe sì vicina al crac, eppure non disporrebbe di una legge fallimentare per andare verso un’insolvenza ordinata. Nell’area dell’euro non esiste una procedura perché un Paese rinvii o ripudi in parte o del tutto sue promesse di pagamento. Soprattutto, non esiste senza il rischio che quello Stato abbandoni di fatto l’area o che il contagio si trasmetta ad altre zone di Eurolandia. Per ora non è successo, però negli ultimi giorni sono emersi i primissimi sintomi di diffusione del virus finanziario: quando mercoledì il Portogallo ha rivelato un bilancio più debole del previsto e l’agenzia di rating Moody’s gli ha chiesto maggiore rigore, gli interessi reali sui titoli di Lisbona sono balzati verso l’alto. Non del 2% e oltre registrato dalla Grecia nelle ultime due settimane, ma il Portogallo ora paga già lo 0,4% in più, pur di ottenere prestiti al 2015.
Il fenomeno del (potenziale) contagio ha alcune caratteristiche costanti nella storia, fra le quali la gerarchia che c’è sempre nella testa degli speculatori. Cercano la volatilità e scommettono al ribasso con molto metodo. Nel ”92 avevano deciso di attaccare il franco francese, il prossimo in ordine di vulnerabilità, solo dopo che le più deboli lira e sterlina fossero crollate fuori dal sistema monetario europeo. Nel 2008 si sono concentrati con le scommesse al ribasso prima su Bear Stearns quindi, caduta la banca gestita peggio, su Lehman, poi Merrill Lynch e, salendo verso le più forti, su Morgan Stanley e infine Goldman Sachs. Ora la Grecia è l’anello debole di Eurolandia. E anche stavolta esiste una gerarchia eventuale del contagio: secondo varie fonti di mercato, essa allinea Lisbona come prossima «preda» qualora cadesse Atene, quindi Madrid, poi più staccate
Dublino e Roma. Conta il livello del deficit annuale, la scarsità o la ricchezza del risparmio privato nel Paese, la salute dei conti con l’estero. In verità almeno per adesso il Tesoro italiano ha paradossalmente beneficiato dei guai di Atene e degli scricchiolii di Lisbona, perché molti investitori a caccia di titoli «periferici» in euro (cioè a più alto rendimento) l’hanno premiato. Hanno venduto la Grecia e il Portogallo e hanno comprato l’Italia: dà più affidamento, perché ha un debito elevato ma un deficit minore e molto risparmio delle famiglie. Il fenomeno dei Cct e dei Bot dai rendimenti mai così bassi si spiega con questa pioggia di acquisti.
Ma il dilemma resta, refrattario a una sintesi da titolo del New York Post. I leader europei vogliono mettere paura ai greci per obbligarli a risanare sul serio, ma vogliono anche prevenire il contagio. Non vogliono premiare con un salvataggio l’irresponsabilità di Atene, ma neanche mettere a rischio Eurolandia. Di qui gli annunci che non ci saranno soccorsi europei, seguiti da fughe di notizie su prestiti allo studio, seguiti da nuove smentite (ieri, da parte del commissario Joaquín Almunia). Ora una delle ipotesi è che la Banca europea degli investimenti compri i porti greci, facendone infrastrutture dell’Unione in cambio dei miliardi che servono disperatamente ad Atene. Ed è anche ovvio che il governo cinese compri dei titoli greci: è già il primo creditore di molti Stati europei, Italia inclusa.
Niente di tutto questo può però bastare in questo 2010 post-recessione in cui i grandi governi inonderanno il mondo con richieste di prestiti per i loro conti in rosso. Dal crac di Dubai due mesi fa l’emergenza sul debito degli Stati non è più tramontata. Solo in Europa le emissioni di titoli pubblici saranno di 2.200 miliardi e altri problemi non sono esclusi. Per questo l’Italia scopre di non avere margini sul deficit e la Spagna annuncia tagli di spesa da 50 miliardi in tre anni, incluso l’aumento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni: con l’epidemia alle porte, Madrid ha capito per prima che qui serve un vaccino.
Federico Fubini