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 2010  gennaio 29 Venerdì calendario

DALL’ESTENUATO MANIERISMO DEL COLORE ALLA CAMERA OTTICA DI CANALETTO

Firenze era stata il Rinascimento; Roma il Barocco; Venezia fu il trionfo del Rococò, ovvero l’estenuazione narcisistica dell’arte che contempla la propria immagine invece di gettare oltre lo sguardo, avviandosi così verso una malinconica fine. Prima di perdere anche la sua libertà di Repubblica serenissima per mano di Napoleone, nel 1797, quel piccolo lembo di terra salvato dall’acqua ebbe la forza di propagare nell’intero mondo le sue intuizioni artistiche: non solo principi, re, alti prelati e collezionisti stranieri facevano a gara nell’accaparrarsi le opere dei maestri veneti sottoponendosi a lunghe liste d’attesa, come rivelano le missive dell’ambasciatore inglese a Venezia Joseph Smith e come conferma anche la corrispondenza di Rosalba Carriera, la quale si lamentava di non riuscire a inviare «quelque petite tête» a Parigi al collega Watteau perché era «attaqué par des Angles», assediata dalle richieste degli inglesi. Ma gli artisti veneti venivano a loro volta anche pressantemente invitati a recarsi all’estero, come attesta la triste fine di Tiepolo, morto a Madrid dopo aver affrescato «La Gloria di Spagna» nel Palazzo reale di Carlo III, o quella di Bernardo Bellotto, che impiegò le sue forze estreme nella lontana Varsavia per il diletto dell’ultimo re di Polonia, Stanislao Poniatowski. Giovanni Antonio Pellegrini lavorò in Inghilterra, in Germania, nei Paesi Bassi e a Parigi; Canaletto immortalò per dieci anni le campagne inglesi e i tetri edifici di Londra; Marco Antonio Ricci servì Lord Manchester; Rosalba Carriera, a Parigi, mise in posa il piccolo Luigi XIV per uno dei suoi deliziosi ritratti a pastello, e come loro espatriarono altri colleghi chiamati nei palazzi più sontuosi d’Europa.
La ragione di quel successo stava nel fatto che i veneti erano «pittori universali», esprimevano cioè al meglio le due anime del Settecento europeo: da una parte quella incipriata dell’Ancien régime occupata a celebrare gli ultimi fasti dissipando i gioielli più splendidi della fantasia barocca in un trionfo impalpabile di colori pastello, riccioli, nastri e volute. Dall’altra quella che, invece di rivolgere gli occhi al cielo e alle sue fiabe mitologiche, teneva lo sguardo ben piantato a terra per osservare il mondo col nuovo metodo illuminista, attenendosi a scienza e verità, magari con l’aiuto di strumenti moderni come la camera ottica.
Da una parte, dunque, la maniera trionfante, solare, retorica ed esibizionista del Tiepolo con il suo «inesauribile teatro in veste mitologica» o «film in costume con metrature di raso freddo e panneggi in carta da pacchi», come ebbe a scrivere con malcelato disprezzo Roberto Longhi; dall’altra la modernità asciutta e antiretorica, dall’approccio «scientifico » , di Canaletto che proprio per questo fu ammesso all’Accademia solo a 66 anni perché la veduta, nel secolo degli inchini e dei salamelecchi, era ancora considerato un genere inferiore a quello della figura che celebrava le historie dei mortali o degli déi.
Da una parte le teste irrorate dal sangue blu che organizzavano, sotto le menzogne delle fiabe dipinte nei soffitti dei loro palazzi, le ultime feste galanti prima che fosse issata la ghigliottina. Dall’altra i clienti di Canaletto, ammiratori di Newton, i quali videro nelle vedute ottiche di precisione la ricerca di verità che si basava sullo stesso metodo della nuova scienza sperimentale formulato da Galileo e celebrato da Bacone, svincolato da ogni ipotesi teologica.
Due anime e due stili che per la loro diversità resero possibile la straordinaria egemonia artistica veneta, capace di parlare all’intera Europa, il cui finale fu però scritto in Francia, già prima che Napoleone ne scolpisse l’epitaffio con il trattato di Campoformio. Nel 1793, infatti, i francesi misero la testa di Luigi XVI sotto la ghigliottina e diedero inizio al Terrore. Quel sipario sanguinario chiuse un’epoca raffinatissima che aveva preso le mosse dalle tenebre seicentesche, le aveva colorate, incipriate e rese evanescenti bagliori rosa, azzurro e pistacchio fino a portarle alla leggerezza del ricciolo e alla nota cristallina dei castrati.
Quell’epoca che aveva fatto della superficialità e della levità la sua cifra (ma, come dicevano i francesi, Du ridicule au sublime il n’y a qu’un pas, dal ridicolo al sublime non c’è che un passo) vide convivere, senza ancora deflagrare, il Don Giovanni di Mozart, le parrucche incipriate, le crinoline, il virtuosismo artificioso di Farinelli e l’arte della tavola teorizzata da Brillat-Savarin nelle «Meditazioni di gastronomia trascendente» insieme con la pubblicazione dell’Enciclopedia, Diderot, Jean-Jacques Rousseau, la satira di Jonathan Swift, le ellissi dello Juvarra, Pergolesi, Vivaldi, Goldoni e la scienza di Linneo, Celsius, Franklin, Spallanzani, Watt, Galvani.
Eppure, quando arrivò, la fine del secolo del grand goût lasciò comunque ancora al Veneto il compito di seminare il futuro grazie a due giganti come Giovan Battista Piranesi e Antonio Canova. L’influenza del primo si estese per rivoli capillari e sotterranei sia al Romanticismo che al Neoclassicismo, dal Sublime di Edmund Burke alle idee di Robert Adam, tienne-Louis Boullée, Claude-Nicolas Ledoux; quella del secondo, principe del verbo Neoclassico dell’intera Europa, fu così grande e indiscussa che a lui fu affidato l’incarico di scolpire il corpo e il volto di colui che il Manzoni chiamò «l’uom fatale», Napoleone.
Francesca Bonazzoli