Francesca Montorfano, Corriere della Sera 29/01/2010, 29 gennaio 2010
MATTIA BORTOLONI IL MAESTRO TIMIDO CHE TORNO’ A BOTTEGA
Luci e ombre hanno segnato il destino di Mattia Bortoloni, genio precoce conteso in vita da prestigiosi committenti e poi altrettanto rapidamente avvolto dall’oblio, offuscato dalla fama impetuosa e travolgente di Giambattista Tiepolo con cui a lungo collaborò, tanto che ancora oggi è difficile distinguere la mano dell’uno da quella dell’altro. Eppure questo artista capace di confrontarsi con i generi più diversi, autore di grandiosi teleri e di spettacolari cicli affrescati, è stato uno dei protagonisti di primo piano dello splendido, primo Settecento veneziano, a fianco di Sebastiano Ricci e Piazzetta, di Pittoni, Dorigny e Crosato. Anche a lui spetta il merito di aver traghettato la tradizione tardo seicentesca verso una pittura più luminosa e solare, verso cieli più azzurri e leggeri, giocando con gli spazi, inventando fantastiche quinte architettoniche, dando vita a sorprendenti effetti illusionistici.
La sua figura, rivalutata nella sua pienezza da recenti studi, è oggi al centro della mostra di Palazzo Roverella dove le opere dell’artista sono messe a confronto con quelle dei maestri e dei contemporanei che ne hanno condiviso l’esperienza, in un emozionante gioco di suggestioni e rimandi.
Se scarse sono infatti le notizie sulla sua vita, con certezza si sa che «fin da putelo» il pittore (nato nel 1696 a San Bellino di Rovigo) viveva a Venezia dove fu messo a bottega dal veronese Antonio Balestra, uno degli artisti più affermati del momento. E sicuramente la lezione del Balestra si è dimostrata fondamentale per il giovane Mattia, come ben rivelano la tela di Ca’ Rezzonico con l’Allegoria del merito e quella di Ca’ Farsetti con Giunone che chiede a Eolo di liberare i venti, opera magistrale tutta giocata sui toni del verde e dell’azzurro. Ben presto, tuttavia, Bortoloni va oltre gli insegnamenti del maestro, ne supera la compostezza di sapore accademico, arrivando a interpretare in modo nuovo, disincantato e ironico, anche i grandi temi religiosi e mitologici.
«Pur assimilando gli stimoli culturali più diversi, Bortoloni ha saputo creare un suo personalissimo linguaggio, caratterizzato da una vena irriverente e dissacrante che a volte si tinge di un realismo spinto fino al grottesco», sottolinea Alessia Vedova, curatrice della mostra di Rovigo. «Ne sono un esempio l’Adorazione dei pastori di Fratta Polesine, dal tono più vivace e bizzarro rispetto alla solenne Natività del Balestra o il San Tommaso di Villanova dall’impaginazione inusuale e i tratti somatici accentuati. A differenza di Tiepolo che mantiene un registro sempre alto, di raffinata eleganza – aggiunge Vedova’ Bortoloni ama inserire nei suoi dipinti elementi di una quotidianità più popolare, come quelle ceste e quelle borracce che raccontano storie di viaggi e di pellegrini. E i suoi personaggi talvolta paiono estranei alla scena, lo sguardo come imbambolato, altre volte ancora sembrano prendersi in giro, come in un gioco».
Oltre a proporre una selezione di capolavori su tela di Bortoloni affiancati ad opere dei grandi del tempo, come la giovanile Gloria di San Domenico e Diana e Atteone del Tiepolo, la bellissima Lucrezia Romana del Ricci o la struggente Estasi di San Francesco del Piazzetta, attraverso bozzetti, disegni e ricostruzioni virtuali la mostra ripercorre l’intera carriera artistica del pittore, artista viaggiatore per eccellenza.
L’esordio, poco più che ventenne, avviene con l’ambito incarico della decorazione di Villa Cornaro a Piombino Dese’ centoquattro riquadri in otto sale’ ma importanti testimonianze si trovano anche a Venezia, nei palazzi Farsetti e Contarini come nella chiesa di San Nicolò ai Tolentini, e in terraferma, a Villa Vendramin Calergi di Fiesso Umbertiano e a Villa Albrizzi di Preganziol. Soffocato dalla presenza del Tiepolo, nel 1739 Bortoloni decide di trasferirsi in Lombardia, dove lascia superbe tracce di sé nel Duomo di Monza, nella chiesa di San Barnaba a Milano, nei palazzi Dugnani e Clerici, nella villa Raimondi di Birago di Lentate e in quella Visconti Citterio di Brignano d’Adda.
Sempre più richiesto dal patriziato e dagli ordini religiosi, si sposterà ancora in Piemonte, a Torino e poi al Santuario di Vicoforte, dove realizzerà l’affresco più esteso del mondo, oltre 5500 metri quadrati di pittura: un capolavoro che segnerà l’apice della prodigiosa attività dell’artista, prima che la morte interrompa, nel 1750, una nuova, grandiosa impresa decorativa.
Francesca Montorfano