Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 29/01/2010, 29 gennaio 2010
LA GUERRA CONTRO I PIRATI MEGLIO FARLA CON I SOMALI
Dei pirati somali sappiamo tutto: dove vivono (porto di Eyl), come operano, i riscatti chiesti e ottenuti, le armi che adoperano. Manteniamo una forza navale mondiale importante nell’oceano antistante, ma se ne catturano qualcuno poi bisogna liberarli (vedi Spagna e Francia) per timore di rappresaglie o affidarli al Kenya. Credo che l’importo dei riscatti pagati si aggiri sui 150/200 milioni di euro. Malgrado la minaccia, le navi in transito non sono armate. Nessuno (governo somalo, Puntland, corti islamiche, Al Qaeda eccetera), almeno ufficialmente, se ne assume la paternità. I soldi dei riscatti sono molti e saranno bene in qualche banca. Allora, considerata la gravità del problema e le ripercussioni sulla sicurezza e sulla economia, perché non si investe Eyl da terra, dal cielo e dal mare e si risolve il problema una volta per tutte?
Lionello Pingue
lionellopingue@libero.it
Caro Pingue, dopo la sua lettera altre prede sono cadute nelle mani dei pirati: una nave britannica carica di prodotti chimici e un cargo greco. Secondo gli ultimi calcoli la navi catturate sarebbero dodici e gli ostaggi poco meno di trecento. Nel 2009 i dirottamenti sarebbero stati 68, quasi venti più di quelli dell’anno precedente. Lei chiede perché la coalizione internazionale non attacchi il porto di Eyl, dove i pirati avrebbero il loro quartiere generale. Credo che la risposta sia quella già data in altre circostanze. Le tre forze multinazionali che pattugliano le acque del Golfo di Aden e dell’Oceano Indiano non vogliono impegnarsi in scontri che avrebbero per effetto la perdita di vite umane anche tra gli equipaggi delle navi rapite; e i rischi, nel caso di un attacco dal mare e dal cielo contro il porto di Eyl, sarebbero indubbiamente maggiori. Lei potrebbe obiettare che gli americani non hanno questi scrupoli in Afghanistan e in Pakistan dove le incursioni degli aerei senza pilota hanno lasciato sul terreno un alto numero di vittime civili. Ma gli americani le risponderebbero che fra la guerra al terrorismo e quella ai banditi corre pur sempre una carta differenza. L’argomento non è del tutto convincente, ma è questa la linea a cui si sono attenuti sinora gli Stati impegnati nella lotta ai pirati. Resta il fatto che la speranza d’incutere paura con la esibizione di alcune navi da battaglia si è rivelata illusoria e che la strategia multinazionale è fallita. In un articolo apparso nell’International Herald Tribune del 4 gennaio, uno studioso dell’argomento, Jay Bahadur, osserva che i pirati non hanno paura degli incrociatori e stanno estendendo l’area delle loro scorribande sino alle Seychelles.
La soluzione del problema, secondo l’autore dell’articolo, consiste nel cercare alleati sulla costa. Il migliore sarebbe il Puntland, una regione nord-occidentale della Somalia che apparteneva in epoca coloniale alla Somalia britannica. Mentre buona parte del territorio somalo è governato dai signori della guerra e il governo provvisorio sopravvive precariamente in qualche quartiere di Mogadiscio, il Puntland ha un presidente, un esecutivo, una forza di polizia che ha riportato qualche successo nella lotta contro i pirati e persino un carcere dove sono rinchiusi quelli che sono stati catturati. Secondo Bahadur, piuttosto che mantenere nella regione flotte costose e impotenti, sarebbe meglio dare qualche aiuto finanziario al Puntland e metterlo in condizione di svolgere un’azione più efficace. In altre parole, per battere un somalo occorre un somalo. Non sarà la fine della pirateria, ma renderà i pirati più insicuri e guardinghi.
Sergio Romano