varie, 29 gennaio 2010
Articoli pescati in rete sulla dipartita di Salinger, lo scrittore fantasma. Da decenni viveva isolato
Articoli pescati in rete sulla dipartita di Salinger, lo scrittore fantasma. Da decenni viveva isolato. Il suo libro più famoso, uscito nel ’51, vende tuttora decine di migliaia di copie La leggenda del romanzo maledetto NEW YORK – Poche ore dopo l’annuncio della sua morte, il settimanale «New Yorker» ha messo online i 13 racconti che dal 1946 al 1965 furono pubblicati sulle sue pagine. Contemporaneamente, su Twitter, Bret Easton Ellis, gioiva per la sua scomparsa, a testimonianza della grandezza, non priva di contrasti e polemiche, del leggendario autore de Il giovane Holden. Il 91enne J.D. Salinger – «La Garbo della letteratura», come l’ha ribattezzato il «New York Times» – si è spento nella sua casa di Cornish, nel New Hampshire, dove viveva da auto recluso da più di cinquant’anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato dal figlio Matt. La conferma è poi giunta dall’agente, secondo cui il decesso è avvenuto «per cause naturali, senza dolore alcuno». Jerome David Salinger era nato a Manhattan il primo gennaio 1919, figlio di Sol Salinger, un ebreo di origini polacche che operava nel commercio di carni, e diMarie Jillich, di origini metà scozzesi e metà irlandesi. Quando si sposarono, la madre di Salinger cambiò il proprio nome in Miriam e si convertì all’ebraismo; J. D. non seppe che sua madre era convertita fino al giorno del suo bar mitzvah. Dopo le scuole superiori s’iscrive alla New York University che abbandona nella primavera del 1937 per imbarcarsi su una nave da crociera. In autunno si fa coinvolgere nell’azienda del padre, che lo spedisce nella filiale della sua ditta a Vienna. Riesce a scappare un mese prima dell’annessione da parte della Germania nazista, quando la sua stessa vita improvvisamente è in pericolo. Tornato in America, frequenta il corso di scrittura della Columbia University, e nel 1940 pubblica il suo primo racconto. L’anno dopo inizia un’appassionata relazione con Oona O’Neill, figlia di Eugene O’Neill, che però non esita a mollarlo per Charlie Chaplin. Nel 1942 parte come soldato alla volta dell’Europa, dove partecipa allo sbarco ad Utah Beach nel D-Day e alla battaglia delle Ardenne. Assegnato al controspionaggio, è tra i primi a entrare nei lager tedeschi. « impossibile non sentire più l’odore dei corpi bruciati, non importa quanto a lungo tu viva», la figlia Margaret ricorda di avergli sentito dire. Anche in guerra non smette mai di scrivere e, al ritorno, inizia a collaborare con il «New Yorker». Il giovane Holden (edito in Italia da Einaudi), manifesto della ribellione giovanile da ormai tre generazioni, esce nel 1951 e riscuote un immediato successo, anche se le prime reazioni della critica furono negative. Dopo la pubblicazione di Nove Racconti nel 1953, J. D. Salinger si ritira a vita privata difendendo la propria privacy con un’ostinazione quasi patologica, sino a raggiungere un isolamento da eremita. Da allora le notizie su di lui si fanno frammentarie e contraddittorie. Di certo si sa che ha collezionato ben tre mogli: la tedesca Shula, da cui divorzia nel 1945 dopo solo otto mesi; la studentessa Claire Douglas, da cui ebbe due figli, Margaret e Matt e l’attuale, Colleen O’Neil, sposata nell’88. Nel 2000, sua figlia Margaret, con l’aiuto della madre Claire, pubblica l’autobiografico «Dream Catcher: A Memoir» (edito in Italia da Bompiani con il titolo L’acchiappasogni) dove fa a pezzi il padre descritto come un sadico, capace di terribili violenze psicologiche sui familiari più stretti che, avrebbe «costretto a vivere da prigionieri virtuali». All’indomani della sua scomparsa resta il mistero dei suoi inediti. Un’amante che aveva avuto negli anni Sessanta, finita la relazione, disse che Salinger scriveva regolarmente e aveva completato almeno altri due romanzi. Pare mettesse un segno rosso sui manoscritti che si potevano pubblicare così come sono e uno blu su quelli da revisionare. Alessandra Farkas Corriere.it Riapparve per bloccare un plagio L’ultima «uscita» pubblica di J.D. Salinger è stata nell’estate scorsa, quando diede mandato ai suoi legali di bloccare l’uscita negli Stati Uniti del seguito non autorizzato del suo romanzo Il giovane Holden. Lo scrittore svedese Fredrik Colting, noto con lo pseudonimo di John David California, aveva infatti annunciato di voler pubblicare un libro intitolato 60 Years Later: Coming Through The Rye che si proponeva, appunto, come il seguito delle avventure del giovane Holden, «riapparso» sessant’anni dopo. Immediata la denuncia di plagio da parte dello «scrittore fantasma». Lo scorso settembre la corte di New York, presieduta dal giudice Guido Calabresi, ha considerato il sequel «un danno irreparabile» al copyright di J.D. Salinger, tanto da ritenere fondato il divieto di pubblicare la parodia che presenta il protagonista creato da Salinger, Holden Caulfield, ormai decisamente invecchiato («Tra l’altro è un libro veramente orrendo», è stato il commento del giudice) fermando così l’uscita del libro negli Stati Uniti (che fece però in tempo ad apparire in Gran Bretagna). In passato Salinger rifiutò anche le richieste di adattare il suo capolavoro per il cinema avanzate dal regista Steven Spielberg. Giornale.it LA MORTE DI SALINGER Le tracce che ha lasciato di NADIA FUSINI Di Salinger quello che rimane nella memoria dei lettori che l’hanno amato è il suo ritiro. Assorda il silenzio volontario, rigoroso, in cui s’ era da anni allontanato, esiliandosi da un paese che diventava via via più volgare e chiassoso. Così mentre lo scrittore americano in cerca di successo planetario si affaticava a conquistare pubblico e mercato, J. D. Salinger, in nome di un’estetica buddista o zen, si preoccupava invece di scomparire, di non lasciare tracce. Non c’ è riuscito del tutto, perché rimangono di lui libri esili, ma indimenticabili: primo fra tutti Il giovane Holden, capolavoro minimalista, in certo senso. Lì un adolescente osservava con implacabile severità una società ai cui modelli non si piegava, sì che il giovane eroe non celebrava nessun rito di passaggio, ma piuttosto confermava la propria renitente distanza dal mondo che voleva educarlo. Distanza anche da modelli letterari, come quello di Huck Finn, giovane scavezzacollo che pure alla fine compie la propria iniziazione. Con Holden Caufield l’avventura dell’iniziazione - tema caro alla letteratura in specie americana- si trasforma nell’avventura dell’obiezione di coscienza, non però alla guerra, ma alle forme sociali della vita americana. Nella grande letteratura del secolo passato lo scrittore americano e il suo eroe non sono mai del tutto ignari della società, la quale società è spesso rappresentata come un mostro ostile, una vasta massa che oppone all’io individuale serie minacce, e malevole intenzioni, sì che ogni forma di controllo è vissuta come maligna, ogni forma di autorità come il portato di uno spietato autoritarismo, la cui mossa fondamentale è volta a divorare la libertà dell’individuo. Non v’ è dubbio che ci siano valide ragioni per questo sentimento; epperò, al tempo stesso, lo scrittore (ogni scrittore) ha bisogno di ordine, se non altro formale, e di valori, se non altro letterari. Salinger li trova nel riferimento al valore assoluto dell’infanzia. Infantili i suoi eroi, perché ragazzini; infantile la sua prosa, perché realisticamente vicina nei modi allo slang giovanile; infantile, nel senso profondo del termine, la sua visione del mondo, legata com’ è a una percezione violenta, impari, del disordine, cui non si può rimediare con la violenza, se non quella patita. A fronte del mondo, il giovane eroe non può che patire la propria impotenza; se sopravvive è in virtù di una forma negativa di endurance. Salinger è un grande scrittore, grande e profetico: anticipa il futuro. La letteratura - che ha sempre questa vocazione, ma non sempre la realizza - con Salinger ci riesce e grazie ai suoi bambini protagonisti - da Franny a Zooey a Teddy- dà figura al crollo lento di un ideale di famiglia che nella sua menzogna politica la società americana non vuole riconoscere; la famiglia come nido d’ amore protettivo non esiste più, la famiglia non protegge e non prepara alla vita, è al meglio stupidamente sentimentale come sono i suoi protagonisti adulti, i genitori, quando non siano colpevolmente indifferenti, o sordi, solo interessati alla performance ordinaria del successo. Nei racconti di Salinger - quando non li soffochi il virtuosismo e la maniera- pur nel volontario abbandono di ogni intonazione epica torna a risuonare il drammatico conflitto che è il leit motif della grande letteratura americana, ovvero la tensione tra la passione di sé come libero agente, libero interprete del Libro e della Vita ( che definisce fin dalle origini puritane il soggetto americano) e il desiderio di comunità, di appartenenza. Con la complicazione che la comunità a cui si vorrebbe appartenere è particolarmente energica nell’imporre i suoi valori all’individuo. Come commenta Salinger questo paradosso? Smaschera la verità, svela che non si addice all’America dei tempi suoi e soprattutto a venire l’ideale freudiano della condizione adulta come condizione di maturità. Né può fiorire in questo paese il romanzo di formazione. Se Holden e i suoi ’fratellì non sviluppano, non crescono, non progrediscono, è perché non possono. Quello dell’uomo adulto in America è un mito, è un falso. E’ per questo che non solo Holden e Franny e Zooey, ma anni dopo di loro gli studenti americani en masse non vollero più andare a scuola nelle fantastiche università costose, costosissime, dove avrebbero loro insegnato a diventare uomini e donne comme il faut. E’ per questo che anni dopo, non vollero andare in Vietnam in nome della patria. Piuttosto, sarebbero rimasti adolescenti per sempre, prolungando in quell’età una condizione esistenziale, mentale e spirituale di interdizione volontaria dell’esercizio dei cosiddetti beni e diritti e doveri legati alla maggiore età. Holden non è l’unico, intendo dire, a preferire il crollo nervoso a casa, piuttosto che il ritorno alla ’salutè della scuola. Altri vivranno on the road senza altra meta. Altri preferiranno, se non lo sono, diventare ’neri’. Altri, se non lo sono, diventare ’donne’. Pochi di loro - cosa inaudita, sconcertante- vogliono diventare uomini. Americani. In una sovversione della morale - più profonda di quella anticipata da Nietzsche- questi bambini, questi uomini e donne in potenza, questi uomini e donne del futuro puntano i piedi e dicono no. Non si adattano a diventare le macchine da lavoro o da guerra o da carriera che la società richiede. A Franny, a Holden non interessano le ’cose’, il denaro; né acconsentono ai grandi valori della virilità matura e della femminilità adulta così come si concretizzano nel tipo Barbie e nel tipo Ken. Hemingway aveva anticipato questa linea di declino della virilità maschia. Da Jake Barnes a Holden Caufield i maschi scappano dalle donne; scappano in verità non tanto dalla sessualità femminile, ma dalla propria, incerta, ambigua. E sono disertori, non perché vigliacchi, ma perché per combattere per qualcosa bisogna crederci, e loro non credono. Non certo in quelle bugie che vengono contrabbandate come valori. Ho citato Hemingway, anche se in realtà lo scrittore sopra ogni altro amato da Salinger è Fitzgerald (Il grande Gatsby, dice uno dei suoi ’bambini’, era "il mio Tom Sawyer quando avevo dodici anni"); per il cui eroe la vicenda esistenziale è solo apparentemente differente. E’ vero, l’eroe fitgeraldiano, Fitzgerald stesso, non fugge dalla donna, ma se ne fa annientare. Non obietta allo sperpero, al consumo, ma alla fine gli immola la propria vita, trasformando i vuoti ideali nel supremo dei sacrifici: sacrificio di sé - come fa per l’appunto il gangster Gatsby, il quale alla crudelissima, consumistica Daisy offre in consumo la sua propria vita. Sì che verrebbe voglia di chiamarlo santo. Ecco, Salinger è stato questo scrittore di un mondo post-eroico, post-umano. L’ha rappresentato grazie alla creazione dei suoi protagonisti infanti, quei bambini angelici, tristi, compassionevoli, in fondo ’buoni’. A me piace immaginare il suo silenzio come la sua ultima scrittura. Come il raggiungimento della piena e realizzata verità dell’infanzia, quasi l’infanzia fosse il regno non dell’assenza, ma dell’implosione della parola. Rep.it Undicietrenta di Roberto Cotroneo Salinger, ci mancherai «Non raccontate mai niente a nessuno, finisce che sentite la mancanza di tutti». Ho avuto un colpo allo stomaco, vero e proprio, nel leggere il flash delle agenzie che dicono che è morto Jerome David Salinger. Aveva 91 anni. Da quasi 50 anni era impossibile vederlo, da quasi 50 anni non pubblicava più nulla. Un mistero, un enigma quasi impossibile da risolvere. Salinger era ed è uno degli scrittori più famosi al mondo, e il suo "The Catcher in the Rye" ("Il Giovane Holden") uno dei libri più amati in assoluto. Era maniacale nel suo essere riservato. Il suo agente aveva posto una clausola pazzesca nei suoi libri. Non si poteva pubblicare Salinger con i cosiddetti paratesti. Ovvero nessuna immagine di copertina nei suoi libri, nessuna notizia biografica sull’autore, e nessuna aletta o quarta di copertina. Silenzio. Eppure, si sente già da ora che non c’è più, anche se lui che non c’è mai stato per questi decenni, nella sua assenza in fondo c’era, nel suo rifiutare il mondo metteva innanzi tutto una passione per la vita che sembrava un controsenso. Nel suo rifiutare la visibilità c’era la consapevolezza di essere comunque, in una forma che nessuno conosce fino in fondo il più visibile di tutti. Ora, e soltanto ora, però si scoperchierà l’ennesimo mistero di uno scrittore straordinario e per certi versi unico. Ora capiremo davvero cosa è successo in tutti questi anni. Se Salinger li ha passati senza più scrivere una sola riga, o se invece, come molti sostengono da anni, ha continuato a scrivere senza pubblicare. O addirittura, come narra un’altra delle leggende, ha scritto e persino pubblicato, ma sotto falso nome. Sapremo se il suo isolamento, se il suo rifiuto a farsi vedere, e a parlare con il mondo, è stato un rifiuto anche del suo essere scrittore, sapremo se esistono dei diari, e nel caso esistano, quanti sono, di quante pagine e cosa raccontano. Ora sapremo se Salinger guardava il mondo, seguiva le cose. Lui che non voleva essere guardato da nessuno. Forse capiremo cosa ha pensato l’11 settembre quando sono crollate le due torri, e se possedeva un computer, o magari un telefono cellulare. Forse sapremo che esiste un testamento, e magari scopriremo che ci sono le sue ultime volontà, e ci sarà il timore, bizzarro come era, che abbia ordinato di distruggere tutto quello che ha scritto e non ha pubblicato. Ma poi, come accade sempre in questi casi, qualcuno si rifiuterà di farlo. Perché le pagine di Salinger, oggi, se ci sono, valgono più dell’oro. Ma dopo che avremo scoperto tutto, dopo che la nostra curiosità sarà soddisfatta, rimarrà un mistero più profondo, quello che sta dentro i suoi libri. Quell’apparente semplicità di Holden Caulfield, e di tutti i suoi personaggi. Ma di quella semplicità misteriosissima e abissale (i semplici di cui sarà il regno dei cieli nel discorso delle beatitudini del Cristo) nella quale ci possiamo smarrire più che in una complicata intelligenza. Roberto Cotroneo 29 gennaio 2010 l’unità.it Addio a Salinger, il genio schivo che scrisse «Il giovane Holden» Se ne è andato, chiuso nel suo mistero di scrittore che ha scelto l’invisibilità e, almeno fino ad ora, il fatto di essere l’autore di un solo libro irripetibile, che ha segnato non solo la letteratura americana, ma anche il modo di interpretare e leggere il mondo giovanile. morto, all’età di 91 anni, Jerome David Salinger, l’autore de Il Giovane Holden, pubblicato nel 1951 e subito diventato un "cult" non solo in America, ma in tutto il mondo. Era nato, il primo gennaio del 1919, ed era cresciuto a Manhattan. Poi lo scrittore si era trasferito a Cornish nel New Hampshire, riducendo progressivamente i contatti, vivendo da recluso, per decenni, tanto che molti hanno pensato che la sua esistenza fosse legata ad una leggenda metropolitana. Lo scrittore fino all’inizio degli anni Ottanta ha rilasciato pochissime interviste. Da allora il silenzio più assoluto – tanto che le edizioni dei suoi libri escono senza risvolto di copertina e senza notizie dell’autore ”, rotto solo dal libro della figlia Margaret, L’acchiappasogni, che racconta i difficili rapporti con i componenti della sua famiglia, scritto tra dolore e necessità di capire la figura paterna, il suo isolarsi dal mondo, quel suo desiderio di creare un paradiso terrestre tra i campi di segale, un sogno che spesso, per lei bambina, diventava una specie di incubo, come l’immagine di un padre «che ha trascorso l’intera esistenza a riversare il proprio cuore nella scrittura». Salinger non ha mai più effettuato apparizioni pubbliche, né pubblicato nulla di nuovo dal 1965, anno in cui era apparso sul New Yorker un suo ultimo racconto. Rarissime sono le sue fotografie, mentre molti risultano i libri di chi ha cercato di indagare su questo mistero, di violare questo esilio volontario, come quello dell’inglese Ian Hamilton autore di una biografia non autorizzata, In cerca di Salinger, che ha avuto anche degli strascichi in tribunale. Autore anche di pochi altri libri, Nove Storie e Franny e Zooey, Salinger ha legato il suo nome e forse anche il suo destino a Holden Caulfield, protagonista de Il Giovane Holden, romanzo che si appresta a festeggiare i suoi sessant’anni, ma che continua ad attrarre «con una tenerezza curiosamente personale, quasi con possessività», come dice Hamilton, lettori vecchi e nuovi, perché non è solo un libro che ha segnato un’epoca, ma che ha cambiato il modo di osservare il mondo giovanile, mettendo a fuoco il tema della generazionalità, attraverso il suo giovane personaggio che è diventato il simbolo dell’adolescente ribelle e confuso in cerca della verità e dell’innocenza al di fuori degli artifici creati dal mondo degli adulti. In realtà Salinger si riferisce ad un grande classico della letteratura americana e ne reinventa le istanze, rileggendo le contraddizioni dell’America degli anni Cinquanta. Infatti riprende la lezione dell’Huckelberry Finn di Mark Twain e ne rilegge contenuti e modi di rappresentazione della realtà giovanile, in modo tanto efficace, anche a livello di scelte linguistiche, da diventare emblema delle problematiche e delle ansie di libertà che accompagnano il passaggio verso l’età adulta. Accolto come "romanzo generazionale", radicato fortemente nella realtà americana, Il giovane Holden è poi diventato un libro "esemplare", tale da superare il contesto generazionale di riferimento ed essere scelto come rappresentativo di altre realtà generazionali, anche delle più recenti. Si potrebbe dire che Holden Caulfield è in grado, ancora oggi, di diventare l’alter ego, in tutto il mondo, del giovane come individuo in cerca di sé, nella difficoltà dei rapporti, nelle questioni esistenziali e familiari che deve affrontare. Il giovane Holden diventa uno dei primi casi in cui la letteratura non resta rinchiusa in se stessa, ma diventa parte di un modo di "interrogare il mondo", con rabbia e disinibizione, senza preclusioni di sorta, inventandolo diversamente anche in contesti sociali assolutamente diversi, di compromettersi con il disorientamento giovanile, senza giudicarlo e senza ricorrere ad intenti educativi. Da qui la sua continua rinascita tra nuovi e diversi lettori, che ne determinano un’attualità che, a ragione, Romano Giachetti, trova non tanto «nelle risposte che non si è saputo dare, bensì nell’aver posto le domande che tutti avrebbero voluto saper articolare». questo il motivo per cui il mondo giovanile continua a trovare la voce che gli appartiene in questo "classico" che ha declinato un’ansia di cambiamento, in cerca di un’autenticità. Fulvio Panzeri avvenire La leggenda del romanzo «maledetto» L’accostamento di «The Catcher In The Rye» all’omicida di Lennon. E la «riabilitazione» di Mel Gibson «The Catcher in the Rye», il titolo originale de «Il Giovane Holden» italiano, è uno dei romanzi più venduti al mondo. Ancora oggi, se ne stampano e vendono decine di migliaia di copie in tutto il mondo. La precisione statistica, per un libro pubblicato la prima volta nel 1951, è ormai del tutto secondaria. Conta di più che a quasi 60 anni dalla sua pubblicazione, sia tuttora considerato non soltanto un classico, ma anche una sorta di simbolo, associato all’inquietudine adolescenziale, individuando in Holden Caulfield il prototipo del giovane, di buona famiglia, che non riesce e soprattutto non vuole integrarsi con le regole che la società ha scritto per lui. Proprio questo aspetto lo ha trasformato, in qualche modo e per «colpe» altrui, in una sorta di simbolo del «male», anche senza averne le caratteristiche. Quale responsabilità può avere J.D. Salinger se «The Catcher in the Rye» è stato associato a Mark David Chapman, l’assassino di John Lennon, e a John Hinckley, l’autore del fallito attentato a Ronald Reagan? Ovviamente, nessuna. C’è gente ossessionata da un romanzo, anche da altri romanzi. O da una canzone. O da un quadro, da una pubblicità. E fra milioni di acquirenti del libro (più ovviamente i soli «lettori», considerando biblioteche, prestiti, eccetera) si può trovare di tutto. Ma la leggenda del romanzo legato a un qualche stato da sociopatico ogni tanto è rispuntata. E ha avuto un’eco anche nel cinema. Nel 1997 Mel Gibson in «Ipotesi di complotto» (Conspiracy Theory) interpreta Jerry, un tassista ossessionato da trame e complotti. Non viene creduto, tranne che da Alice (Julia Roberts), finché poi i suoi sospetti, denunciati inutilmente, si rivelano più che fondati. Nel film Jerry- Gibson ha spesso con sé una copia de Il giovane Holden. Sembra, appunto, un sociopatico. Ma non lo è. Bizzarro, forse, ma non folle né omicida. Salverà la vita di Alice e farà scoprire la trama degli assassini. Quasi a riabilitare anche la lettura ossessiva del «Giovane Holden». 28 gennaio 2010 corriere.it di Valeria Gennero PRIGIONIERO DELLA SUA LEGGENDA NELL’OMBRA Lo scrittore statunitense è morto mercoledì nella piccola località di Cornish, dove si era rifugiato più di sessant’anni fa per sfuggire a una popolarità che trovava detestabile. Sotto questo aspetto, come nella capacità di descrivere nel «Giovane Holden» l’angoscia giovanile, aveva individuato e anticipato due dei temi più rilevanti della nostra epoca http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100129/pagina/11/pezzo/270221/ Il fantasma è uscito di scena di Giovanna Mancini Ha passato più tempo a sfuggire gli uomini che a vivere in mezzo a loro. Da oltre 50 anni Jerome David Salinger - scomparso ieri all’età di 91 anni - aveva lasciato il suo appartamento di Manhattan per ritirarsi a Cornish, nel New Hampshire, evitando il più possibile di apparire in pubblico, realizzando in qualche modo il desiderio del suo personaggio più celebre, quel giovane Holden che sognava di costruirsi «una piccola capanna da qualche parte nel mondo e trascorrere lì il resto dei suoi giorni». E pensare che da ragazzo Salinger, non certo uno studente modello, andava in giro pavoneggiandosi del proprio talento letterario e giurava che avrebbe scritto il «grande romanzo americano». Così avvenne, in effetti, quando nel 1951 pubblicò The Catcher in the Rye, titolo intraducibile (ispirato a una famosa poesia scozzese di Robert Burns) che in italiano divenne Il giovane Holden, punto di riferimento per generazioni di adolescenti e di scrittori. Ma il successo non piacque a J.D. che, stanco di vedere la propria faccia ritratta nelle copertine di The Catcher in the Rye, chiese all’editore di farla togliere dalle successive ristampe. Dopo la pubblicazione di Nine Stories nel 1953, che riscosse nuovamente il favore della critica, si trasferì a Cornish e da allora la difesa della propria privacy sembrò diventare la sua ragione di vita. Raramente si muoveva dal New Hampshire, se non per qualche breve vacanza in Florida o per incontrare William Shawn, l’editore del New Yorker che anni prima lo aveva accolto tra gli scrittori della rivista. In compenso, schiere di giornalisti e di giovani ammiratori hanno tentato in tutti questi anni di avvicinarlo e di farsi rilasciare interviste. Invano. Dopo l’apparizione, nel 1965 sul New Yorker, di un ultimo breve racconto, Salinger ha smesso di pubblicare. Ha rilasciato due sole interviste: nel 1953 a una giovane studentessa per il giornale scolastico, e al «Times» nel 1974. Cosa abbia fatto in questi lunghi anni è la domanda che tutti si sono posti. C’è chi pensa che abbia smesso completamente di scrivere, chi fantastica di racconti e romanzi scritti e poi bruciati o chi, come Joyce Maynard che con lui ebbe una relazione di dieci mesi nel 1973, sostiene che esistano almeno due romanzi nascosti da qualche parte, che lei però non ha mai visto. La stessa Joyce, nel 1998, ha pubblicato un libro in cui svela i dettagli più personali della vita dello scrittore, mettendone in piazza le ossessioni sessuali e le manie salutistiche. Sulla stessa linea si muove il libro pubblicato nel 2000 dalla figlia di Salinger, Margaret, che abbonda di particolari scabrosi e diffamatori sul carattere disturbato del padre – un ritratto peraltro smentito dall’altro figlio dello scrittore, Matthew. Tanto silenzio e tanta attenzione a tutelare la propria privacy non hanno fatto che aumentare il fascino e il mistero per quest’uomo la cui vita – fino al successo letterario – è invece ben nota. Figlio di un ebreo polacco che voleva farne un commerciante di carni, e di una irlandese con sangue scozzese, J.D. Salinger nacque a Manhattan nel 1919. Fu un giovane poco attratto dagli studi ma di grandi ambizioni: sin da adolescente iniziò a mandare racconti alle riviste letterarie e vi riuscì nel 1939 grazie all’aiuto di With Burnett, direttore di Story Magazine e suo insegnante in una scuola di scrittura serale. Poi vennero la guerra e il suo reclutamento nel servizio di controspionaggio prima e nel servizio di de-nazificazione della Germania poi. In mezzo, amori fugaci e matrimoni solo un po’ più duraturi. Conobbe Claire Douglas nel 1953 e lei lo seguì a Cornish, sposandolo due anni dopo e dandogli i due figli, Margaret e Matthew. Ma non resistette all’isolamento in cui Salinger si era chiuso e nel 1966 chiese il divorzio. Poi vennero altre amanti e infine, nel 1988, il matrimonio con Colleen O’Neill, di 40 anni più giovane di lui, che scelse di condividere con lui una vita lontana dai riflettori e dai pettegolezzi. In due occasioni Salinger stesso si vide costretto a uscire allo scoperto per tutelare la sua stessa privacy: nel 1986 portò in tribunale il critico letterario Ian Hamilton – che in un primo momento aveva autorizzato a scrivere la sua biografia – per impedirgli di pubblicare le sue lettere o sue citazioni. Una seconda volta lo scorso anno, quando denunciò un autore svedese, Fredrik Colting, che aveva pubblicato un sequel non autorizzato del Giovane Holden. In silenzio, come aveva vissuto negli ultimi anni, ieri se ne è andato: i suoi agenti hanno fatto sapere che non ci sarà una funzione e che la famiglia chiede rispetto per il suo riserbo in questi giorni. 29 gennaio 2010 Giovanna Mancini Sole 24 ANTONIO SCURATI Il vecchio Jerome D. Salinger - prima padre e poi nonno del giovane Holden - ci ha lasciati. Che la terra gli sia lieve, soprattutto a lui che dallo stampo della levità forgiò il più celebre antieroe del secondo dopoguerra. Anche nel suo caso, però, come in molti altri casi di campioni dell’evanescenza, i problemi da loro sollevati ricadono su chi si lasciano dietro. A pensarci bene, questa razza di maestri della levità produce, paradossalmente, un pesante lascito di scorie. Salinger e il suo Holden appartengono, infatti, a quella rara specie di animali volatili, aerei ed eterei, a quella rara genia di sublimi acrobati dell’inconsistenza che brilla per un istante di luce incerta tracciando una scia da cometa tossica. A noi, alle creature che rimangono a terra, passato l’istante, ci lasciano soli di fronte a un cielo se possibile ancora più vuoto. Detto altrimenti: non ho mai trovato molti motivi per appassionarmi al Giovane Holden ma ho, invece, avuto numerose occasioni di soffrirne gli eredi. Certo, l’epigonia è da tempo un problema universale, e non si può imputare agli archetipi i loro epigoni, ma con i maestri della levità il problema degli epigoni si fa particolarmente pesante. Se penso a quanto pervicace infantilismo si è fatto scudo di quel diciassettenne vizioso, svagato, fantasioso e ipersensibile che ama ballare e leggere ma non studiare, che adora il vecchio jazz e odia il cinema, se penso a quante quote del mondo adulto abbiamo dovuto rinunciare per poterci accucciare sotto il totem dell’eterna adolescenza, se penso a quanto il culto tributato ai romanzi d’indesiderabile formazione si è reso complice di una società oramai completamente incapace di fornire una qualsiasi formazione ai propri figli, se penso a quanta insulsaggine si è contrabbandata per candida saggezza infantile, non mi dispiacerebbe, tutto sommato, metterci una pietra sopra. Il mio problema con Salinger è, insomma, lo stesso che ho con Calvino: è un problema con i salingeriani, con i calvinisti della levità a tutti i costi e costi quel che costi. Ho già scritto, su questo stesso giornale, che l’influsso sulla cultura letteraria (e non solo) delle lezioni americane di Calvino è stato, a mio modesto parere, tra i più nocivi. In nome della sua eredità, incompresa, fraintesa, equivocata, enormi volumi d’inanità hanno potuto trovare un formidabile alibi nell’autorevole elogio della leggerezza. Vale lo stesso per Salinger. C’è stata una stagione in cui togliere peso alle cose era, forse, la mossa giusta da fare. Ora che l’inconsistenza è diventata l’ideologia dominante, se vogliamo tornare a calcare la terra da uomini, dovremmo forse riguadagnare un po’ di gravitas. Insomma, tutta ”sta adolescenza ci ha stufato. E sospetto che Holden Caulfield sarebbe d’accordo con me. ANTONIO SCURATI Lastampa.it CLAUDIO GORLIER In pieni Anni Cinquanta mi capitò una sera di viaggiare in autobus tra Oakland e San Francisco. Accanto a me sedeva un giovane studente che poteva avere l’età di Holden Caulfied, il protagonista del romanzo di Salinger, in quel momento un successo clamoroso. Nella mezz’ora di viaggio mi parlò come un’onda di piena dei suoi interessi, dei suo progetti. Gli domandai quale fosse la sua maggiore aspirazione, e lui mi rispose, con perentoria sicurezza, «voglio contribuire a salvare il mondo». Mi venne la tentazione di chiamarlo Holden, anche perché parlava come lui, nel caratteristico linguaggio proprio dei giovani che sostanzia il romanzo di Salinger. Lo stesso, se mi consentite un’altra indulgenza autobiografica, di una ragazza, ebrea come Salinger, con la quale intrattenevo una intensa quanto effimera relazione sentimentale. Questo non significa che Salinger si sia limitato ad ascoltare e a trascrivere. Come Mark Twain, cui è stato opportunamente avvicinato, Salinger sceglie quale referente il giovane problematico in un momento di crisi individuale e collettiva, nel suo rapporto inquieto con la famiglia. A somiglianza di Holden o dei personaggi dei racconti, i giovani che mi capitava di frequentare si staccavano dalla famiglia non per un gesto di ribellione, ma di ridefinizione, nel senso stesso di una religiosità quasi profetica. Ne ebbi parecchi come allievi, e ricordo bene quanto il loro sforzo di affrancamento si esprimesse nel linguaggio. Salinger lo ha capito e reinventato come nessun altro. E’ morto l’autore del Giovane Holden Aveva 91 anni, non pubblicava dal ’65 Jerome David Salinger, autore del celeberrimo «Il giovane Holden» («The catcher in the rye») è morto a Cornish, nello stato americano del New Hampshire, all’età di 91 anni: lo ha reso noto il figlio dello scrittore. «The catcher in the rye», con protagonista il giovane Holden Caulfield, uscì nel 1951, all’inizio della Guerra Fredda: venne subito selezionato come Libro del Mese e la recensione avvertiva i lettori che «chiunque stesse educando un figlio, vi avrebbe trovato una fonte di meraviglia - e preoccupazione». Holden divenne rapidamente il più famoso anti-eroe della letteratura americano dai tempi di Huckleberry Finn, e il libro ebbe un successo travolgente in tutto il mondo, vendendo 60 milioni di copie - ed eclissando tutta la successiva produzione di Salinger, peraltro non uno scrittore eccessivamente prolifico. Seguirono infatti la collezione di racconti «Nove storie» (1953), «Fanny and Zooey» (1961), «Alzate l’architrave, carpentieri» e «Seymour, un’introduzione» (pubblicati insieme nel 1963); il suo ultimo racconto, «Hapworth 16, 1928», venne pubblicati dal New Yorker nel 1965. Da allora solo annunci di nuove pubblicazioni mai rispettati, l’ultimo nel 1999 quando un vicino di Salinger, Jerry Burt, raccontò che lo scrittore aveva altri quindici inediti nella cassaforte della sua casa. Nel 1952 infatti Salinger aveva lasciato la natia New York per trasferirsi a Cornish, dove tre anni più tardi sposò Claire Douglas, dalla quale ebbe due figli prima di divorziare nel 1967; nello stesso tempo iniziò a rifiutare qualsiasi intervista, dando istruzioni al suo agente di respingere al mittente le lettere dei fan: secondo alcune voci riusciva a lavorare solo in un bunker di cemento. Di fatto, Salinger divenne celebre - oltre che per Holden, del quale rifiutò numerose offerte di produzione teatrale e cinematografica - per il suo rifiuto di diventare famoso: nel 1982 intentò causa ad un uomo che cercava di vendere una sua falsa intervista ad un quotidiano, e cinque anni dopo fu la Corte Suprema degli Stati Uniti a scomodarsi per impedire la pubblicazione di una biografia non autorizzata che riportava dei passi di alcune lettere inedite dello scrittore (che si era affrettato a sottoporle a copyright non appena saputo del progetto di biografia). La cortina di ferro che proteggeva Salinger venne scostata solo nel 1998, quando la scrittrice Joyce Maynard nelle sue memorie descrisse una breve relazione avuta con Salinger negli anni Settanta, e soprattutto da «Dreamcatcher», la biografia scritta nel 2000 dalla figlia Margaret nel quale dipingeva il padre come un recluso dal carattere scontroso. La stampa.it Muore Salinger, ma adesso che fine farà il giovane Holden? C’è una foto che lo ritrae e che spiega bene la sua personalità: con una mano tiene un carrello, con l’altra si schermisce, coprendosi il volto. Quello scatto, più di ogni altro, presenta bene chi fosse J.D. Salinger e come visse il demone maledetto del successo dopo lo straordinario exploit del Giovane Holden. Ma spiega forse anche qualcosa di più nascosto e sfuggente, ovvero la sua notorietà internazionale, imparagonabile con qualsiasi altro scrittore contemporaneo. Partiamo dall’inizio della storia: Jerome David Salinger nasce a New York, nel quartiere di Manhattan, il primo gennaio 1919. figlio di un ebreo di origine polacca e di una scozzese convertitasi all’ebraismo. Va in guerra nel 1942. Quando vi ritorna, come ha scritto, Gabriele Romagnoli, ”è assetato di conferme, di ammirazione e di successo”. Manda lettere ai direttori delle riviste, articoli, racconti. Nel 1951, la svolta: esce The Catcher in the rye. Un rompicapo inatteso sin dal titolo, in altre lingue intraducibile (non è un caso che l’edizione italiana sia intitolata appunto Il giovane Holden). Il libro ha un incipit folgorante (’se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e come è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io”) e soprattutto un impatto deflagrante sulla società americana. Critici e osservatori dicono abbia sconvolto un’intera generazione; ciò che è certo che ha sconvolto il suo autore. Appena scorge il clamoroso successo, Salinger infatti scappa. Beninteso, scappa da tutto: dalla 57ma strada di Manhattan, dai produttori cinematografici che vogliono mettere in pellicola il suo capolavoro, dagli editori che dicono di voler ”valorizzare” il libro (opporrà un costante rifiuto alla possibilità di inserire qualsiasi immagine persino nella copertina), dai presunti eredi letterari, contro i quali conduce un’ostinata battaglia giudiziaria per tutelare la vita del suo Holden. E con la sua invisibilità finisce presto per creare un mito. Più che nelle nebbie dell’anonimato, l’uomo Salinger diventa infatti un personaggio. Amato ai limiti del fanatismo, inviso ai critici e anche a qualche scrittore (è il caso di Bret Easton Ellis che su Twitter, secondo quanto riporta l’Huffington Post, avrebbe addirittura festeggiato la sua scomparsa). Di qui l’inevitabile cortocircuito. Con la sua condotta, infatti, più che tutelarlo, Salinger ha di fatto lasciato sullo sfondo il suo libro, che si è nutrito non tanto del suo valore letterario quanto piuttosto dell’atteggiamento solipsistico del suo creatore. ’Ciò che conta nel romanzo - ha scritto su Repubblica Edmondo Berselli - è il clima, l’atmosfera, ciò che le pagine raccontano come sottointeso, il parlato come senso implicito. Per questo il romanzo di Salinger è diventato un volume d’affezione, cioè di culto”. difficile dargli torto. Ma siamo sicuri che senza l’ostinata fuga del vecchio Salinger il giovane Holden avrebbe avuto lo stesso successo? filippomaria_battaglia panorama Giuseppe Conte J. D. Salinger si era già congedato dalla sua epoca 40 anni fa. Viveva come un maestro zen al tempo dell’incomunicabilità. Il vecchio Holden, antieroe di tutti gli adolescenti aiuto J.D. Salinger, lo scrittore americano autore de «Il giovane Holden», pubblicato nel 1951, è morto all’età di 91 anni. Secondo quanto reso noto dal figlio, Salinger è deceduto per cause naturali nella sua casa di Cornish, New Hampshire. Da decenni viveva da recluso. Dal 1965 aveva smesso di scrivere. Dal 1980 non dava interviste. Da quanto durava il silenzio di Jerome David Salinger? Ora la sua scomparsa, a 91 anni, rende quel silenzio definitivo, e nello stesso tempo lo riempie del clamore che ogni dipartita porta con sé. Quel suo appartarsi, quel suo vivere ritirato e irraggiungibile a Cornish, nel New Hampshire, avevano contribuito a creare il suo mito vivente. Lontano dagli schiamazzi e dalle sfide che piacevano a Norman Mailer, dalla Chicago nera di Saul Bellow, dalla scena di Manhattan tutta occupata da Philip Roth, Jerome David Salinger apparteneva, per isolato che fosse, alla loro grande famiglia. Anche lui di origini ebraiche, anche lui tormentato dai temi del sesso, anche lui propenso a credere nel valore benefico della scienza umana per eccellenza del Ventesimo secolo, che è la psicoanalisi. Ma Salinger, rispetto ai suoi colleghi, aveva qualcosa di diverso e di più. Aveva individuato una volta per tutte il tema della giovinezza con una essenzialità miracolosa, con una forza leggera e drammatica, ariosa e malinconica che fa pensare a Francis Scott Fitzgerald, di cui fu un ammiratore non a caso; quella giovinezza che all’autore di Tenera è la notte appariva come «un sogno, una specie di follia chimica». E poi Salinger aveva quel silenzio Zen in cui si era chiuso, quella ricerca metafisica che innerva già alcune delle sue opere successive al successo cui il suo nome è legato, intitolato in italiano Il giovane Holden con una davvero opportuna sottolineatura del tema della giovinezza. Il romanzo è del 1951. E inaugura la seconda metà di un secolo in cui i giovani hanno vissuto ribellioni, paranoie, passioni, trasgressioni come mai nei secoli passati. Il giovane Holden come James Dean, come il primo Brando. Si scava il solco tra le generazioni che dura ancora. La giovinezza si erge ad arbitro, a metro di valutazione. Da trasgressiva può diventare regressiva, come è per me in certi seguaci conclamati del maestro americano. Ecco l’incipit del romanzo: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorreste sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori o compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e, secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio di infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto». Il linguaggio ammicca al gergo giovanile e allo slang. E in poche righe enuncia i temi portanti che renderanno il libro così nuovo e così memorabile. Holden Caulfield, la voce che parla, taglia i ponti con il romanzo tradizionale, e spara contro Dickens le sue cartucce novecentesche. Alla generosità visionaria a delirante dell’autore di David Copperfield - che, detto per inciso, oggi è forse più drammaticamente, paradossalmente attuale di Salinger stesso - contrappone un progetto di scrittura residuale, introversa, ellittica. Novecentesca. Subito compare sulla scena la famiglia, tema su cui tutta la narrativa ebraico-americana si incentra e si gioca. Padri e madri borghesi, timorati, conformisti. A cui i figli gettano contro le proprie nevrosi di ribellione e di cambiamento. Ricordate il Lamento di Portnoy, di Philip Roth, che bissò il successo del Giovane Holden e divenne una sorta di manifesto per la generazione successiva? Il sesso appare sempre come problematico e infelice. A niente era valso l’insegnamento clamoroso e gioioso di Henry Miller. Al giovane Holden il sesso procurato in un alberghetto dal cameriere Maurice si presenta come squallido, come qualcosa che lo defrauda e lo umilia. Lo stesso suo professore Antolini lo spaventa, quando intravede in lui la volontà di abbagliarlo e sedurlo. Tutto è disillusione. Un certo humour freddo e in sostanza nichilista percorre questa disillusione, rendendola sopportabile, o almeno dicibile. La malattia in questo universo è il male assoluto. E così le immagini del fratello Allie morto di leucemia inseguono Holden mescolandosi alla sua quotidianità. E la psicoanalisi diventa la terapia, l’epilogo obbligato, cui il protagonista sarà spinto dalla sorella Phoebe e dalla famiglia. L’approdo alla psicoanalisi data il libro. Nel secolo XXI la psicoanalisi non ha già più la stessa funzione e lo stesso potere di attrazione. Salinger scrive e definisce magistralmente il suo tempo. I Nove racconti, del 1953, Franny e Zooey, del 1961. Poi, dall’ultimo racconto del 1965, fa tesoro del suo silenzio. Fu chiamato in causa per spiegare diversi fenomeni artistici del suo tempo. Scrisse Italo Calvino che nei Nove racconti Salinger «contrappone alla volgarità imperante giochi e chiacchiere di bambini e di donne; e ti fa correre un brivido per la schiena, perché rappresenta il rapporto totale e diretto con l’universo, quello che i teologi chiamano la grazia. E la grazia non è graziosa, è felicemente assurda e tragica». Calvino commentò con queste righe così limpide l’apparentamento tra Salinger e Antonioni, nella fattispecie l’Antonioni dell’Eclisse, fatto da un critico cinematografico come Pietro Bianchi. L’alienazione, l’incomunicabilità, l’assurdo: Antonioni, Beckett... Il Novecento nei suoi aspetti ormai canonici e finiti. Salinger si congeda al momento giusto, ora il suo silenzio è quello di una maestro Zen, quello che a me piace chiamare il silenzio dell’infinito. Il giornale.it Salinger e la retorica E’ morto J.D. Salinger, lo scrittore americano del ”Giovane Holden”, ed è uno scatenamento di retorica. Leggo solo commenti sperticati. Mi chiedo perché. Intendiamoci: Salinger è stato uno scrittore di straordinario talento. Un talento tuttavia strozzato, anzi cancellato da lui stesso. Dopo ”Il giovane Holden”, i ”Nove racconti” e poco altro, ha infatti deciso di togliersi di mezzo, come scrittore. Non ha più pubblicato nulla. Perché? Non lo sappiamo. Non ha mai spiegato se continuava a scrivere, preferendo non pubblicare, o se non scriveva affatto, oppure se scriveva e poi buttava via tutto, per insoddisfazione o autolesionismo. Quello che a noi è rimasto – il suo corpus letterario – benché a tratti scintillante è comunque assai poco. E’ il bellissimo, promettentissimo abbozzo di qualcosa che poi non è stato. Direste oggi di Raymond Radiguet, autore dell’indimenticabile ma solitario ”Il diavolo in corpo”, che è uno dei giganti del Novecento? Mi chiedo allora perché tutta questa retorica a stampa sulla morte di un autore eccellente ma non certo grandissimo, il cui nome rimane legato fondamentalmente a un titolo e a un personaggio (e fate pure paragoni: che cosa sarebbe la signora Bovary senza ”L’educazione sentimentale”? Anna Karenina senza ”Guerra e pace”, Tonio Kroger senza ”La montagna incantata”, Mrs Dalloway senza ”Gita al faro” e via di seguito?) Ho l’impressione, in altri termini, che il clamore eccessivo di oggi, l’eccesso di iperbole sull’importanza di Salinger sia dettato da motivi extra-letterari, paradossalmente riaffermando quella cultura dell’immagine e del sensazionale, che lui ha così evidentemente detestato con coerenza fino alla morte. Che cosa voglio dire? Una cosa semplice. Salinger non ha tollerato il proprio successo, la fama, presumo anche la ricchezza. Ha insomma sputato (se così posso volgarmente esprimermi) su ciò che chiunque di noi brama incessantemente da quando diventa un individuo adulto. Parlo almeno delle società occidentali (anche se non vedo modelli così diversi neppure ad altre latitudini). Quello che noi – scrittori, artisti, operai, massaie, esseri umani in generale – desideriamo raggiungere con tutte le nostre forse, lui, Salinger, lo ha semplicente rifiutato. E così si è autorecluso per decenni. Mai dato interviste. Mai messo piede in uno studio televisivo. Mai neanche una foto. Niente. E se qualcuno si azzardava ad andarlo a cercare nel suo buco del New Hampshire dove viveva fino a ieri l’altro, lui lo scacciava via a suon di calci e di avvocati. Come ho detto, non sappiamo perché tutto questo. Io immagino che fosse semplicemente un po’ tocco. Del resto, sua figlia Catherine ha scritto a suo tempo un’autobiografia, in cui la figura del padre era tratteggiata a tinte non proprio rassicuranti. Ma non importa. Il punto vero è che questo rifiuto di fama e successo ha colpito indelebilmente la sensibilità media occidentale. Giusto i santi cattolici, nel passato, hanno avuto la stessa caparbia determinazione a negarsi. Credo sia questo che oggi, di fronte alla morte, emerge nei giudizi e nei ricordi. Non si piange in realtà il grande scrittore, bensì l’individuo che, unico nel campo artistico-letterario dell’ultimo secolo, si è spogliato di se stesso per accedere a una specie di santità laica. Nell’era del trionfo del consumo, della ricchezza e della sua ancella – l’immagine – Salinger ha mandato tutti a quel paese, in nome della sua bizzarria, o anche soltanto della sua disgraziata paranoia. L’espresso, mario fortunato blog Insomma perché lo ha fatto? Cos’è che a un certo punto lo ha bloccato? Perché ha smesso di scrivere? O quanto meno di pubblicare? Perché un successo simile non è umanamente sostenibile o perché non è verosimilmente replicabile? Perché aveva il terrore di aver perso tutta quella freschezza, tanta giovanile baldanza, o perché non si sentiva artisticamente attrezzato alla maturità? Perché tutti dimenticassimo che era esistito o perché non sopportava l’idea che lo dimenticassimo? Perché abituato com’era a scrivere libri giusti aveva il terrore che fosse arrivata l’ora del libro sbagliato o perché una volta che hai scritto certi libri non ti interessa di scriverne altri? Perché non aveva più cose da dire o perché, avendone ancora un sacco, disperava di poterle esprimere compiutamente? Perché frattanto aveva perso ogni fiducia nella narrativa o perché l’aveva trasfigurata al punto da non sentirsi più all’altezza? Perché non voleva che gli rompessero le scatole o perché sognava che non smettessero di rompergliele? Per seriosità o per un eccesso di frivolezza? Per orgoglio o per modestia? Per moralismo o per menefreghismo? Per snobismo o per disperazione? Per infantilismo o per maturità? Per misantropia o per un pervertito amore del prossimo? Perché disprezzava tutti (pubblico, editori, colleghi, giornalisti, premi, traduzioni, recensioni, groupie) o perché, amandoli troppo, preferiva abbandonarli prima di essere abbandonato? Per ragioni private che non conosceremo mai o per ragioni pubbliche che troveremmo squallide? Perché era la cosa più difficile da fare o perché era la cosa più semplice? Perché desiderava essere diverso da tutti gli altri o perché covava il sogno di poter tornare a essere uno qualunque? Perché era diventato pazzo o perché era tornato savio? Per dare alla sua vita una forma artistica o per fornire la sua arte d’un’esistenza tragica e incomprensibile? Perché aveva la nausea o perché scrivendo era riuscito a farsela passare? Lo ha fatto perché si accontentava di aver lambito l’energia esplosiva di Rimbaud, di Radiguet, di Cocteau o perché sapeva che non sarebbe mai stato Tolstoj, Proust, tanto meno Joyce? Lo ha fatto perché gli bastava essere Salinger o perché di Salinger ne aveva abbastanza? La morte ha questo di bello: lascia un sacco di domande inevase. Alessandro Piperno HOLDEN BOY – NON SI LEGGE SALINGER. E’ SALINGER CHE LEGGE NOI - il meraviglioso inganno architettato da uno scrittore intelligente a cui si era esaurita la vena (la modestia e la ritrosia non si confanno agli scrittori baciati dall’insuccesso, figuriamoci a quelli baciati dal successo quando hanno 30 anni, e da allora tirati in ballo ogni volta che si parla di giovani, scapestrati oppure no)... Franco Cordelli per "il Corriere Della Sera" Cogliendo la trasformazione di un mondo che sembrava scoprire nel momento della sua nascita, o di un suo risorgimento (dopo la guerra mondiale); ovvero cogliendone l’inevitabile procedere verso la saturazione (che noi chiamiamo mercificazione) Jerome David Salinger se ne ritrasse di colpo. Ne aveva captato l’orrore. Così comincia la seconda avventura della sua vita, ciò che lo rese un personaggio mitico, quanto mitico i suoi quattro libri lo avevano o, poco più tardi, lo avrebbero reso. Salinger smise di scrivere, o almeno così crediamo. Sparì dalla scena del mondo. Rese materiale e reale un’immagine archetipica della letteratura americana: quella di Bartleby, il personaggio di Melville che preferisce non rispondere, non dire più niente. Che si dubiti o meno di lui (molti hanno preferito dubitare) egli compì in anni remoti un gesto che resta scolpito nel cuore della nostra stessa percezione, dell’arrembante e tragico secolo suo. Di fronte ad una scelta così radicale, e cosi precisa, ci sono poi i suoi libri. Vi è in essi qualcosa che prefiguri quanto accadde dopo e che, come è evidente, non è meno cruciale? Io penso di sì. Il libro che ha dato, e dà a Salinger fama imperitura, e notorietà quotidiana, è il suo primo, Il giovane Holden. Lo lessi di un fiato la vigilia dell’esame di maturità. Mi dette la capacità di resistere a ciò che tanto temevo. Andai a quell’esame non più tremebondo, ma sarcastico e quasi spavaldo. Non credo sia il suo libro più bello. però il suo più rincuorante, scritto da un uomo giovane su un uomo giovanissimo, un ragazzo. un libro di quelli che ai giovani offrono speranza, l’idea che il mondo non sia così terribile, che, alla fin fine sia limpido o giovane anch’esso. , come dicevo prima, l’America quale Salinger si raffigurava. Poi l’America cambiò, quasi subito. O Salinger intuì che sarebbe cambiata. Se si osserva il passaggio dai Nove racconti a Franny e Zooey, a Alzate l’architrave, carpentieri, si vede che il suo autore, accompagnato dai personaggi, va ritraendosi, a differenza di Holden in punta di piedi- fuggendo non già nello snobismo di una famiglia (la famiglia Glass) come piace pensare a tanti lettori; e neppure nella santità di una vita monastica o semplicemente arroccata. I personaggi della famiglia Glass, sempre presente negli altri tre libri di Salinger, parlando tra loro cercano una nuova misura interiore che li preservi, senza davvero credere che la tragedia possa non convocare, prima o poi, loro stessi. Il primo dei racconti che seguono Il giovane Holden, «Un giorno ideale per i pesci-banana», il più bello che Salinger abbia scritto, è come il colpo di pistola in un concerto: quel colpo di pistola è il suicidio, così inatteso, del protagonista. Allo stesso modo, la quasi fluviale (se questo aggettivo per Salinger ha un senso) parlerie di Alzate l’Architrave chiude la saga della famiglia Glass, e la sua avventura terrena, con una prova in corpore vili che si può tacere (si deve anzi tacere, fino al suicidio), ma si può anche parlare, si può parlare fino allo stordimento, fino a riempire il mondo non più di parole, ma di pure e semplici chiacchiere - le merci dalle quali, se si è onesti, ci si deve, almeno un poco, ritrarre. Mariarosa Mancuso per "il Foglio" Adesso finalmente sapremo se la casa di Cornish, New Hampshire, dove lo scrittore ha vissuto da recluso per oltre cinquant’anni era piena oppure no di manoscritti da pubblicare solo a esequie avvenute. Sapremo se era previsto un seguito a "Il giovane Holden" (titolo editoriale made in Italy che levò di mezzo l’acchiappatore nel campo di segale, mentre la traduzione di Adriana Motti si inventava un gergo di sana pianta). A parte, si intende, le continuazioni apocrife firmate da scrittorelli in cerca di gloria, contro cui immancabilmente lo scrittore sguinzagliava gli avvocati. Sapremo se sono romanzi, saggi, poesie, ricordi dello sbarco in Normandia, o magari le lettere d’amore scambiate con la fidanzatina Oona O’Neill, figlia del drammaturgo e futura moglie di Charlie Chaplin. Sapremo se i manoscritti, sicuramente contesi a suon di aste miliardarie, nascondono capolavori e altri romanzi di futuro culto. Oppure se recano la stessa frase su ogni pagina, come quelle meticolosamente impilate da Jack Torrance nel film "Shining": "All work and no play makes Jack a dull boy". Da uno che se ne sta chiuso in casa ringhiando a chiunque cerchi di scattargli un’istantanea - giusto per capire che faccia ha e come sono diventate quelle sopracciglia a cespuglio delle foto posate anni 50 - ci possiamo aspettare di tutto. Più uno dice "lasciatemi in pace", più gli corriamo dietro. Se Salinger non avesse scritto altro che "Il giovane Holden", "Franny e Zooey" e un’altra manciata di racconti - l’ultimo uscito sul New Yorker nel 1965 - la sparizione sarebbe stata una mossa astutissima. In cuor nostro speriamo che sia così: il meraviglioso inganno architettato da uno scrittore intelligente a cui si era esaurita la vena (la modestia e la ritrosia non si confanno agli scrittori baciati dall’insuccesso, figuriamoci a quelli baciati dal successo quando hanno 30 anni, e da allora tirati in ballo ogni volta che si parla di giovani, scapestrati oppure no). Avremmo voluto anche dare una sbirciata in casa Salinger quando in una puntata dei Simpson lo scrittore schivo con il sacchetto di carta in testa risultò essere il collega - oltre che compagno di gioco a nascondino - Thomas Pynchon. La lettura del "Giovane Holden" spinge verso l’ipotesi della grande burla. Non conosciamo infatti personaggi romanzeschi che ambiscono a essere sinceri, spontanei, innocenti nel loro sguardo sul mondo (e sulle anatre di Central Park che non si sa mai dove vanno a svernare) e invece se la tirano quanto Holden Caulfield. Uno che continuamente si mette in posa, e comincia facendo il verso a Charles Dickens: "Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne". Uno che pagina dopo pagina cerca di spiegarci quanto sono ipocriti gli adulti, e se gli avanza fiato sputa sulla falsità e l’inutilità del cinema. [29-01-2010] Jerome David Salinger (New York, 1º gennaio 1919 – Cornish, 27 gennaio 2010) è stato uno scrittore statunitense.