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 2010  gennaio 29 Venerdì calendario

ROONEY, IL BRUTTINO CHE NON MOLLA MAI


Londra. L’abitudine di prendere a calci, oltre al pallone, anche il destino sentendosi più forte di tutto e tutti, Wayne Rooney (24 anni) l’ha avuta fin da piccolo. Quando aveva otto anni, fu notato da uno scout del Liverpool che lo segnalò ai responsabili delle giovanili e fu convocato per un provino con i Reds. Un sogno che si avvera per qualsiasi bambino nato nel Merseyside ma non per lui che il blu dell’Everton lo aveva tatuato nell’anima fin dalla nascita e così, per non deludere papà declinando l’offerta, decise per una via di mezzo: presentarsi sì al campo d’allenamento ma con la maglia della sua squadra del cuore, l’altra metà di Liverpool. Lo scopo fu raggiunto: vedendolo arrivare, i dirigenti dei Reds lo invitarono a tornare negli spogliatoi senza nemmeno fargli toccare un pallone. Il sogno poteva attendere, i colori non possono essere traditi.
E l’attesa, come sempre nelle favole a lieto fine, non fu poi così lunga: tre anni dopo le giovanili dell’Everton lo chiamarono a sé e Wayne Mark Rooney per sei anni fu la colonna di quella squadra che faceva tremare i team under sedici di tutta Inghilterra. Nel 2002, poi, la chiamata: il ragazzo dal fisico robusto, il tiro potente e il carattere da attaccabrighe di periferie era pronto per la prima squadra, per la Premier League. Debuttò in agosto, contro il Tottenham e fu subito amore: sei gol in 33 partite, quasi mai partendo da titolare. Non male per un ragazzino al primo anno da professionista. Soprattutto perché il primo gol tra i ”grandi” si tolse il lusso di segnarlo all’Arsenal con un tiro a girare da venti metri, interrompendo così la striscia di trenta giornate senza sconfitte per i Gunners londinesi: un predestinato, in tutto e per tutto. La seconda stagione è altalenante, deve attendere Natale per il primo gol ma alla fine le presenze saranno trentaquattro e i gol nove: alla porta, però, stava per bussare un totem del calcio inglese, quel Sir Alex Ferguson che per il talento del Merseyside era pronto a tutto. Negli ultimi giorni di mercato estivo del 2004, Rooney passa al Manchester United per 33 milioni di sterline, scatenando le ire dei tifosi dell’Everton che lo tacciano di tradimento e facendo storcere il naso a molti critici per un esborso simile a fronte della giovane età e di due stagioni in Premier buone ma non da fenomeno.
Sir Alex, vecchia volpe, lascia che le bocche prendano fiato e parlino. Il resto è storia recente. L’altra sera Wayne Mark Rooney ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, il perché è riuscito a far innamorare anche un uomo poco incline ai sentimentalismi e agli elogi come Fabio Capello: semifinale di Carling Cup all’Old Trafford, 2 a 1 per lo United contro i cugini del City allenati da Roberto Mancini, un risultato che per l’assurdo regolamento di questa competizione - che prevede il valore del gol doppio in trasferta solo se raggiunti i supplementari - permetteva ai blu manciniani di sperare ancora nell’approdo a Wembley dopo trentaquattro anni. E invece, al secondo minuto di recupero del secondo tempo, il ragazzo dalle gambe possenti e un po’ corte ha deciso che era ora di chiudere la gara: 3 a 1, cugini a casa e United per l’ennesima volta in finale. Sir Alex, sornione nel suo giubbotto blu da marinaio, sorrideva con lo sguardo del vecchio saggio che molti anni prima aveva capito che Rooney non aveva i colpi di Cristiano Ronaldo, la visione di gioco di Lampard, il cross e l’appeal di David Beckham ma era quello che in Inghilterra viene definito un ”blowin’ eyes lad”, il ragazzo che ti fa uscire gli occhi dalle orbite perché specializzato, come Mister Wolf di Pulp Fiction, nel risolvere problemi. O, come l’altra sera, fare miracoli e far impazzire di gioia la metà rossa di Manchester, costringendo Mancini a stringersi ancor di più la sciarpa biancazzurra al collo e tornare a casa con la testa bassa.
Rooney non è bello ma è efficace, è l’essenza stessa del calcio inglese: non molla mai, non toglie mai la gamba, non lesina manate e sguardi truci agli avversari, provoca sapendo di poterselo permettere, incanta senza aver bisogno di un alone glamour attorno a sé. Wayne Mark Rooney, non fosse il calciatore che è, sarebbe il classico ragazzo che alle cinque del pomeriggio trovi al pub di fronte a un pinta di birra e un pacchetto di patatine intento a parlare di calcio e donne con gli amici, forte di quella sua faccia tignosa e dura a fronte di una voce pacata da bravo ragazzo che intervistato prima della partita con il Milan di Champions League passa dieci minuti a incensare la grandezza di Clarence Seedorf. Lui, l’uomo che nelle ambizioni di Fabio Capello dovrà guidare l’assalto alla Coppa del mondo in Sudafrica, sa stupire e anche spiazzare.
Sposato con Coleen McLoughlin, fidanzatina fin dai tempi del liceo, quando quella che oggi è sua moglie e madre di suo figlio Kay, nato due mesi fa, lo abbandonò dopo aver scoperto la sua ennesima scappatella londinese con una prostituta da poche decine di sterline, si chiuse in casa per dieci giorni a piangere, consolato dalla mamma. Non si allenava, non mangiava, piangeva e attendeva il perdono: come un ragazzino qualunque, Wayne Mark Ronney soffriva per amore e non lo negava, né ai tabloid che lo assediavano né ai tifosi né, soprattutto, a se stesso. Lui, il ”blowin’ eyes lad”, voleva Coleen ed era pronto anche ad abbandonare il calcio: lei, con enorme sollievo di mezza Inghilterra, lo perdonò e divenne sua moglie. La favola poteva continuare. Come l’altra sera, quando tutti si attendevano l’extra time e lui ha deciso che era ora che partissero invece i titoli di coda, lo schermo andasse in dissolvenza e virasse sul seppia e la pellicola uscisse sibilando dal proiettore sancendo la fine. Wayne Mark Rooney può anche questo, perché lui sa che senza quelle urla dagli spalti, quella sofferenza sotto pelle e quelle facce stravolte dalla gioia a cui corre incontro dopo ogni gol, del calcio non fregherebbe nulla a nessuno. Per primo a lui. E lui, quegli sguardi, li cerca esattamente come i gol. Lui è il ”blowin’ eyes lad”.

Mauro Bottarelli, Il Riformista 29/1/2010