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 2010  gennaio 28 Giovedì calendario

COS LEVI MI RACCONT AUSCHWITZ- Il 1975, per chi andava a scuola, fu un anno particolare: era il trentennale della Resistenza, e i programmi di tutte le materie si piegavano alla rievocazione, non senza quella retorica che si annusava pure da ragazzini

COS LEVI MI RACCONT AUSCHWITZ- Il 1975, per chi andava a scuola, fu un anno particolare: era il trentennale della Resistenza, e i programmi di tutte le materie si piegavano alla rievocazione, non senza quella retorica che si annusava pure da ragazzini. Canti della Resistenza, memorie della Resistenza, lettere della Resistenza. L’anno della seconda media fu monografico. Per capire di più, non per farmi vedere a scuola, mi fu spiegato, avrei potuto andare a conoscere dei testimoni, come Primo Levi. Avevo appena letto ”Se questo è un uomo”, bisognava leggere ”La Tregua”, e ricordo vagamente che a parte lo stordimento, e l’orrore, capii poco altro. Ma il nome era importante, valeva la pena ascoltarlo. Tramite amici comuni arrivò la richiesta, e l’invito cortese. Cortese è la parola che più descrive l’accoglienza, la ritrosia, la modestia, di quell’omino piccolo, con la barbetta a punta che tanto mi ricordava le figure dei profeti che immaginavo dalle letture a Messa dell’Antico testamento. Dovevano essere così, gli ebrei. So che mi sono trovata sempre a mio agio, nonostante l’impaccio dei Rec e Play di un registratore pesante: come quando chiedevo a mio nonno, «Adesso parlami della guerra», così ho passato più di un pomeriggio ad ascoltare storie, nel salottino gozzaniano un po’ scuro, con le persiane socchiuse, di quell’elegante palazzina del quartiere torinese Crocetta. Il divano a fiori rosa antico, mi pare, il servizio da tè, i suoi larghi sorrisi. Capivo bene quello che diceva, parlava con semplicità, preoccupato certo di non essere troppo duro, di non farmi del male con una verità tanto crudele. Era ben più delicato e pacatamente dolente delle professoresse: sapevo che raccontava una parte, e non la peggiore. Che insisteva soprattutto sulle persone incontrate, ricordate, che gli avevano dato uno squarcio di serenità. stato uno dei primi a farmi pensare che questo Dante doveva esser letto e studiato, se un canto dell’Inferno poteva ridare nel lager la dignità agli uomini. So di deludere me stessa e chi legge, se i miei dodici anni non hanno trattenuto altro. Un dolore composto, uno sguardo limpido, che guardava lontano, ma indietro nel tempo, la voglia, da vero maestro, di trasmettere tuttavia a una ragazzina il senso di un impegno civile, delle parole libertà e giustizia. Solo tanti anni dopo ho capito che la speranza non c’era più, e neppure un barlume di possibile felicità. Una primavera ventosa, al lavoro negli uffici di una casa editrice, mi telefona mio padre per dirmi che Primo Levi era caduto dalla tromba delle scale del suo palazzo, forse si era ammazzato, chissà. Stavo a qualche centinaio di metri, sono arrivata in quell’androne prima dei cronisti e della polizia. La portinaia, costernata, mi ha indicato un lenzuolo, per terra (il marmo lucido e bello delle case di Torino). Sono scappata via. Ho creduto allora e oggi che sia stata una disgrazia, l’esito di un troppo grande dolore. A me aveva detto che si può essere uomini anche ad Auschwitz, se si ha un ideale, se si guardano gli altri uomini come fratelli, se teniamo nel cuore ciò che amiamo, e me l’ha detto sicuro, e sorrideva.