Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 28/01/2010, 28 gennaio 2010
CINA, UN BOOMERANG DI NOME BAIDU
Passa il tempo e la querelle aperta da Google contro il governo cinese rischia di rivoltarsi contro la multinazionale californiana, aggiungendo un contenzioso agli altri che vanno maturando sul piano fiscale con la Turchia e la Francia e su quelli del diritto d’autore e della privacy con la magistratura italiana.
L’accusa di censura, mossa alle autorità di Pechino, perde forza mano a mano che il motore di ricerca continua a operare in Cina accettando, come fa già da 4 anni, le note limitazioni in materia politica e sessuale. Si sta riscoprendo in ritardo una questione di principio o il ritiro dalla Cina è stata soltanto una minaccia verbale? Abbandonare la Cina è più difficile di quanto non appaia. Lo sterminato popolo degli ideogrammi preferisce il motore di ricerca nazionale Baidu, che detiene una quota di mercato attorno al 60% contro il 30-40% di Google. Entrambi quotati al Nasdaq, la Borsa dei titoli tecnologici di New York, Baidu capitalizza 14,6 miliardi di dollari, Google ben 172. Come Google, Baidu si fa pagare in base ai click. Fattura 612 milioni di dollari e ne guadagna 235 contro i 23 miliardi di ricavi e i 6,5 di utili del colosso americano. Ma Baidu ha saputo interpretare il suo mercato meglio del blasonato rivale, offrendo specialmente giochi, messaggistica e musica.
Come rileva un recente studio della McKinsey, l’internauta cinese è giovane e povero, e dunque molto diverso da quello europeo e americano, più ricco e focalizzato sull’uso professionale. In base ai bilanci, si potrebbe dire che la Cina può vivere agevolmente senza Google e Google può rinunciare tranquillamente all’1% dei ricavi che si procura in quel Paese. Ma gli internauti cinesi sono 384 milioni, un quinto del totale mondiale, e possono crescere a ritmi molto alti sia nel numero, grazie all’alfabetizzazione informatica perseguita dal governo anche nelle campagne, sia nel reddito, e dunque come destinatari di pubblicità. La Cina, insomma, può essere una piattaforma di lancio verso il mondo. Del resto, anche la cinese Alibaba ha sgominato eBay sul mercato interno e ora sta lanciando il sito di e-commerce Taobao. Un po’ di protezionismo potrebbe giovare a Baidu come, a suo tempo, giovò all’industria dell’auto giapponese. E questo forse spiega perché il prezzo dell’azione Baidu sia 65 volte l’utile mentre quello dell’azione Google 27 volte.
Certo, in prima battuta, l’argomento liberale di Google sollecita le coscienze occidentali. Ma nemmeno il rispetto delle leggi, richiesto da Pechino all’impresa ospite, è argomento trascurabile. Riaffermando l’esistenza dei confini, e dunque di mercati stabiliti dal diritto, la Cina comunista contesta l’idea di un mercato sovranazionale che si costituisce in virtù di un primato tecnologico autoreferenziale e non di accordi tra Stati sovrani.
L’accusa di hackeraggio, mossa al governo di Pechino a caccia della posta elettronica dei dissidenti, è conturbante. Ma va provata. E comunque apre due problemi. Il primo è se Google sia in grado di garantire la sicurezza delle comunicazioni. Ma il problema più serio è costituito dalle garanzie che Google può dare sull’uso che fa della crescente massa di comunicazioni e informazioni che tratta nel momento in cui la sua attività si va estendendo dalla pubblicità alla telefonia mobile e perfino al trading di energia elettrica. Google controlla gli internauti, ma chi controlla Google? Oggi la questione si pone sul triste terreno della censura politica in Cina, ma domani potrebbe diventare una questione di business e anche una questione democratica nei Paesi sviluppati.
Massimo Mucchetti