Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  gennaio 28 Giovedì calendario

L’OMBRA DEGLI AYATOLLAH IRANIANI DIETRO GLI STRANI ATTENTATI A HERAT - DAL NOSTRO INVIATO

HERAT - Cinque piani color canna di fucile, l´hotel Five Stars non è esattamente un cinque stelle da guida Michelin. un edificio solido però, e nemmeno architettonicamente tanto sgradevole. Ha una sessantina di stanze, è ben posizionato, nel senso che non è né troppo vicino né troppo lontano dal centro di Herat, ed è a poche centinaia di metri dal verde del grande parco di Beha Mellat. di proprietà di Ismail Khan, uno dei più potenti e ricchi signori della guerra afgani, già governatore della provincia e più volte ministro. Karzai lo avrebbe voluto anche nel governo che tra mille difficoltà si appresta a varare, ma il suo nome è stato inopinatamente bocciato dal Parlamento. L´8 gennaio scorso, era un venerdì, in un´ora, le nove e mezza di sera, già insolita per un attentato, qualcuno ha sparato contro quell´albergo tre colpi di Rpg. Non l´hanno buttato giù, ne hanno solo infranto le vetrate del corpo centrale. Un lancio mirato, chirurgico quasi. Che potessero avercela con Ismail Khan non lo crede nessuno. Ce l´avevano con gli americani. Il Five Stars, infatti, una volta ristrutturato, sarà destinato a ospitare il nascente Consolato generale a stelle e strisce di Herat. Una megastruttura per centinaia di diplomatici, funzionari, 007 e marines che, per ovvi motivi di sicurezza, dovrà avere il vuoto intorno per un raggio di almeno mezzo chilometro.
Bella grana, dunque, per chi vive da quelle parti, che già immagina ogni sorta di limitazioni e divieti. Addio passeggiate nel parco e soprattutto addio serenità. Ma se il fastidio degli afgani in fondo non è un problema, quello degli iraniani lo è eccome. La prospettiva di trovarsi da un giorno altro il nemico sull´uscio di casa in quell´ovest che da sempre considerano una loro dependance, non deve essere per nulla piaciuta ad Ahmadinejad. Ecco perché nel lungo elenco dei possibili autori del lancio dei razzi - ribelli, trafficanti e Taliban - c´è chi punta il dito contro Teheran.
Sarebbero stati loro, anche se ufficialmente tutti si guardano bene dal tirarli in ballo. Un avvertimento, insomma, un esplosivo messaggio di benevenuto ad ospiti sgraditissimi. In ogni caso un campanello d´allarme per i futuri equilibri della regione che rischia di trasformarsi nell´ennesimo fronte di guerra. Alessandro Veltri, il generale comandante della Brigata Sassari attualmente di stanza nella provincia di Herat - dove ci sono già tremila nostri soldati, ai quali se ne aggiungeranno presto un altro migliaio - è di tutt´altro avviso. «Gli americani? Faciliteranno il nostro compito - dice - Insieme avremo la possibilità di operare al meglio come è brillantemente già accaduto a Bala Morghab». Si riferisce, il generale, alle 72 ore di battaglia che agli inizi di gennaio hanno opposto i «dimonios», supportati dai marines, a un non meglio precisato gruppo di una sessantina di insorti poi sgominato e senza per fortuna subire perdite. Quanto alla leadership, manco a parlarne. Per Veltri era e resta nostra. Sarà anche così, ma non sono pochi a dubitarne. Il doppio cappello americano, Isaf da un lato ed Enduring Freedom dall´altro, consente loro ampia libertà di manovra. Come dire che quando lo riterranno opportuno ci taglieranno tranquillamente fuori. Quel che è certo è che nei prossimi mesi ci sarà da combattere. Molti dei sedici distretti in cui si divide la provincia sotto il nostro comando, sono già in caldi come Shindad e Farah e altri presto potrebbero diventarlo: Gorian, Pashtun Zargun, Obe e Cest el Sharif, possibili vie di fuga degli insorti in rotta da Kahandar e dal sud tutto dopo l´offensiva di primavera promessa o minacciata da Obama. Una non rassicurante prospettiva dunque per i nostri soldati. E dire che da queste parti se non proprio amati, siamo comunque rispettati e la cooperazione poi, sia quella militare che civile, sta facendo un ottimo lavoro che la gente mostra di apprezzare. Due ospedali, il pediatrico - costruito dalla componente militare e attrezzato coi fondi della cooperazione italiana - e quello regionale di Herat (il più grande della provincia, che la cooperazione italiana sta rivoltando come un calzino per farne una struttura all´avanguardia) e una miriade di altre iniziative, grandi e piccole. Stanno a dimostrare che non ce ne siamo stati a guardare.
Ma Marco Urago, capo del «Progetto emergenza» della cooperazione italiana e Sergio Maffettone, il diplomatico a capo della sezione civile del Prt sono convinti che si possa e si debba fare di più. Mettere mano alle infrastrutture, realizzare cose che restino e che ci possano anche dare un ritorno come sistema paese. «E´ tempo - dice Urago - di cambiare registro. Abbiamo in progetto di costruire i 60 chilometri di strada che separano Herat da Cest el Sharif, la Carrara del marmo afgano». Ma il fatto che anche gli italiani inizino a fare sul serio non disdegnando un loro tornaconto piace poco non solo ai partner della Coalizione - gli affari fanno gola a tutti - ma anche ai paesi confinanti, Iran soprattutto, che vorrebbero impunemente continuare a lucrare sulle ricchezze afgane. C´è un´altra guerra, insomma, oltre a quella delle pallottole.