Alberto Mattioli, La Stampa 28/1/2010, pagina 1, 28 gennaio 2010
CHI UCCIDE L’UNICA EPOPEA RISORGIMENTALE
Ha ragione Maurizio Maggiani quando scrive (La Stampa di domenica 17) che in Italia non c’è stata una vera epica del Risorgimento e che, se è esistita, è stata dimenticata. Ma ha torto quando la cerca nel grande romanzo che non c’è. E che del resto non ci poteva essere in una Nazione tenagliata fra una maggioranza di analfabeti e una minoranza di arcadi. Non è vero che «questo mio Paese, il popolo di cui sono parte, non ha il suo romanzo, non ha il suo poema da cantare, la sua leggenda». Perché la leggenda c’è: si chiama melodramma.
E stupisce che proprio un governo di centro-destra, che in teoria dovrebbe essere più sensibile a ciò che rappresenta la Tradizione e la Nazione, lo stia uccidendo.
I famigerati tagli fanno risparmiare pochissimo: ma con quei quattro soldi si potrebbero mantenere i nostri teatri d’opera vitali, o almeno vivi. E sarebbe bene che lo restassero, non solo per chi li frequenta, ma per tutti. Certo, la cultura italiana più accademica e ufficiale e togata e stupida non ha mai amato l’opera. Ha accusato gli italiani di aver inventato il melodramma perché sono melodrammatici o di essere melodrammatici perché hanno inventato il melodramma. E, con le dovute eccezioni (Mazzini e Gramsci, per esempio) non ha mai posto la musica al centro della sua riflessione. E dire che alla musica la lingua l’abbiamo data noi: perfino lo studente di un conservatorio cinese è tenuto a sapere che cosa vogliono dire «largo» o «allegro».
Ma il punto non è questo. Il punto è che se esiste un’identità nazionale, se, per dirla con Maggiani, «un popolo, ogni popolo, ha bisogno di un racconto per specchiarsi», noi italiani questo racconto l’abbiamo. Ed è stato - o è ancora? - non solo lo specchio di noi stessi, ma anche la colonna sonora della nostra storia: Risorgimento compreso.
Con tutti i dovuti distinguo, beninteso. Verissimo che l’opera lirica è stata l’unica forma artistica nazionalpopolare italiana, come aveva capito Gramsci, e l’unica ad accomunare ogni classe della popolazione, come racconta la geografia sociale dei nostri teatri, con i palchi per la nobiltà, la platea per la borghesia e il loggione per il popolo. Ed è vero che nell’Ottocento anche borghi minori e paesotti minimi ospitavano l’opera nei loro teatrini, in una diffusione capillare oggi inimmaginabile. Ma, come notava John Rosselli, è altrettanto vero che la grande massa contadina del Paese difficilmente poteva ascoltare Rossini o Verdi.
Stessi equivoci per quella vicenda tortuosa, confusa e contraddittoria che chiamiamo per (buona) convenzione Risorgimento: che Verdi ne sia stato il bardo, che l’abbia cantata con consapevole determinazione, è una delle tante leggende codificate dopo, a cose fatte, a Unità bene o male (più male che bene) compiuta. Anzi, Verdi è proprio l’esempio di tutti gli entusiasmi, ma anche di tutte le incertezze e le giravolte di quella minoranza che, alla fine, fece l’Italia. Quando scrive Nabucco (1842) o I Lombardi alla Prima crociata (l’anno seguente), nella vulgata corrente opere «risorgimentali» per via dei celebri cori, per lui chi canta «Va’ pensiero» o «O Signore dal tetto natio» sono proprio gli Ebrei o i Lombardi, e quelli del Mille, non gli Italiani dell’Ottocento. Del resto, nessuno ricorda mai che le opere sono entrambe dedicate a un’Absburgo, un’Adelaide maritata Vittorio Emanuele non ancora secondo e figlia dell’Arciduca Ranieri, presunto oppressore delle genti lombardo-venete, e Maria Luigia felicemente regnante a Parma.
Poi Verdi acquista coscienza politica, nel marzo radioso del ”48 s’infiamma per le Cinque giornate, è repubblicano (a Piave: «Sì, sì, ancora pochi anni, ancora pochi mesi e l’Italia sarà libera, ma repubblicana: cosa dovrebbe essere?») e scrive la sua unica opera programmaticamente patriottica, La battaglia di Legnano, con Mazzini e Garibaldi ad applaudire la «prima» all’Argentina durante la Repubblica romana. Segue l’età del realismo: il maestro s’innamora di Cavour, fa parte della delegazione che porta a Torino i risultati del plebiscito (taroccato) delle Province parmensi, è deputato di Borgo San Donnino al primo Parlamento nazionale. Sarà senatore del Regno, ma rifiuterà il titolo di duca. Grande agrario, regalerà ospedali ai suoi braccianti ma s’infurierà quando sciopereranno e approverà le cannonate di Bava Beccaris. Insomma, l’iter politico della borghesia italiana del secondo Ottocento.
E tuttavia, al di là delle contraddizioni e perfino della realtà, il Mito esiste e resiste. Perché ancor oggi in quel grande microonde della commozione che è l’opera si scioglie ogni razionalità, si risolve ogni dialettica. Confessiamolo: ci emozioniamo come i nostri nonni ascoltando, ancora e sempre, «Va’ pensiero». O rivedendo la prima sequenza di Senso, dove quel genio di Visconti fa fiammeggiare nella «Pira» del Trovatore un Risorgimento romantico e forsennato, idealista e demente che forse non c’è mai stato, ma è come se fosse esistito davvero, e non un secolo e mezzo fa, ma ieri, oggi, adesso, qui. In quegli eroismi di cartapesta non c’è il vero; ci basta però che ci sia il verosimile per credere di essere davvero una Nazione, che la Patria non sia morta, che l’Italia non sia definitivamente archiviata dalla storia. Come scrive Bruno Barilli nel Paese del melodramma, con una di quelle frasi che valgono da sole come un intero trattato: «Durante la recita il nostro cuore di credenti palpita appeso alle icone dei padri».
Alberto Mattioli