Rocco Moliterni, La Stampa 28/1/2010, pagina 33, 28 gennaio 2010
FRANCESCO BONAMI. L’AMERICA TORNA ALL’INTIMISMO
Lo slogan di Obama «Yes, We can», nel giro di due anni nel mondo dell’arte americana si è trasformato in un «Yes, I can», ossia dalle illusioni collettive si è tornati a sottolineare la propria individualità»: a parlare è Francesco Bonami, 55 anni, toscano, direttore della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Nel 2003 ha curato la Biennale di Venezia, ora cura quella del Whitney Museum di New York, il sancta-sanctorum dell’arte made in Usa, che aprirà i battenti il 25 febbraio.
Lei è il primo italiano cui viene affidata la più importante biennale americana. Come si sente?
«Mi sento come un emigrante che ha avuto successo. E’ una grande soddisfazione, mi sembra anche il riconoscimento ad anni di lavoro».
Quali novità porterà a una kermesse che celebra la sua 75 esima edizione?
«Per la prima volta ci sono più donne che uomini. Forse proprio perché nell’arte americana si torna a forme di intimismo, mi è sembrato ci fossero più donne con cose interessanti da dire. Poi ho deciso si sfoltire i ranghi, passando dagli 80 artisti del 2008, a 55. Inoltre ho pensato di razionalizzare l’esposizione: in piano avremo film e video, in un altro le installazioni, nell’altro lo spazio ”suburban” con pittura, scultura e performance».
Perché ha scelto come titolo «2010»?
«Perché qualsiasi titolo avessi dato, qualcuno avrebbe sostenuto che c’erano artisti che non avevano nulla a che fare con quel titolo. Allora meglio scegliere un elemento inoppugnabile come la data in cui la Biennale si svolge. Ma non è un escamotage: spesso l’arte di un certo periodo dopo qualche tempo ti sembra superata: ricordo quando nei primi Anni 80 si vedevano certi Schnabel e li si trovava ”contemporanei”, oggi ti sembrano datatissimi. Per questo ha senso scegliere come titolo una data»
Qual è la tendenza oggi prevalente?
«La chiamerei self-modernism, in italiano potremmo chiamarla ”brico modernismo” o ”modernismo fai da te”. Ci sono artisti e artiste che si ispirano ai pionieri del ”900: penso a Josh Brand che si rifà agli inizi della fotografia o a Lorraine O’Grady, che mette accanto Baudelaire e Michael Jackson, il primo padre dell’estetica modernista, il secondo sdoganatore della modernità per i neri. C’è poi un ritorno all’astrazione negli artisti che si occupano di pittura e sorprenderanno di sicuro i disegni astratti di Charles Ray, di cui siamo abituati a vedere le sculture come il Ragazzo con la Rana che ho esposto a Punta della Dogana a Venezia la scorsa estate»
Che differenza c’è tra curare grosse manifestazioni in America e in Italia?
«In Italia, nelle istituzioni pubbliche, è opprimente il peso della politica. Non si pensa al futuro ma l’orizzonte è quello del mandato dell’assessore di turno. Le faccio l’esempio di Villa Manin di Passariano, dove avevo creato un centro per l’arte contemporanea: è cambiata la giunta e adesso fanno le mostre degli impressionisti di Goldin. Poi da noi non c’è nessuno che controlla o verifica. Se al Whitney avessi messo ad esempio molti artisti non americani, me ne avrebbero chiesto la ragione. In Italia un museo può fare acquisizioni o mostre scriteriate, sperperando fior di quattrini, senza che nessuno gli dica nulla se al politico va bene».
Facciamo qualche esempio?
«Penso al Maxxi di Roma, nessuno gli ha imposto di chiamarsi in quel modo, Museo delle Arti del XXI secolo, ma se si chiama così dovrebbe essere coerente. Invece faranno mostre di De Dominicis o di Pistoletto e hanno costruito una collezione dove non ci sono o quasi opere dell’ultimo decennio. Si meritano davvero che arrivi Sgarbi a supervisionare».
Appena nominato al Padiglione Italia, Sgarbi ha sparato a zero sull’Arte Povera, Lei che cosa ne pensa?
«Con Sgarbi non siamo d’accordo su nulla, credo che lui rappresenti un ritorno al passato e non ha senso avergli affidato il Padiglione Italia. Ma sull’Arte Povera non ha tutti i torti. E mi chiedo anche il senso della grande mostra che vuole celebrare per i 150 anni dell’Unità un movimento che è stato vivo per soli 5 anni, dal 1967 al 1972. L’Arte Povera è stata importante in quegli anni, ma un po’ come il Pci che era il più grande partito comunista d’Occidente e di fatto ha bloccato lo sviluppo del nostro paese, quel movimento con il suo potere ha bloccato la crescita delle generazioni successive. E Celant è un po’ come il Conte Ugolino che mangia i suoi figli. Le quotazioni degli artisti dell’Arte Povera sono a livello internazionale molto più basse di quel che potrebbero essere, perché Celant ha impedito che si facessero mostre in giro per il mondo se non c’era il suo imprimatur. Oggi sarebbe credibile se organizzasse sei mostre in grandi musei fuori Italia, ma quello che sta varando per il 2011 è solo un’autocelebrazione».
Oggi si apre a Bologna Arte Fiera. Quale effetto ha avuto la crisi sul mercato?
«Penso che la crisi abbia ristabilito le misure, smorzando i toni e i prezzi. Prima della crisi c’era una sorta di frenesia, eravamo al paradosso che certi galleristi alle fiere quasi minacciavano i collezionisti: ”O compri subito o vendo a un altro e peggio per te”. Adesso tutto è più slow: il collezionista può pensare, meditare e ha tempo per pensarci su».
Che differenza c’è tra collezionisti italiani e americani?
«Gli americani seguono più le mode, e quindi le loro collezioni sono ”omologate”. Puoi vederne una a New York identica a un’altra di Los Angeles. I collezionisti italiani sono più curiosi e legati al gallerista di fiducia. Ma costruendo collezioni con la loro testa e non secondo le mode, si sono salvati dalla bolla. E all’ultima Basilea erano quelli che compravano ancora, anche perché gli americani sentono più i riflessi psicologici dell’economia. Anche se hanno soldi oggi hanno paura a comprare».
Rocco Moliterni