Alberto Bisin, La Stampa 28/1/2010, pagina 1, 28 gennaio 2010
PROTEZIONISMO, LA TENTAZIONE MORTALE
Il presidente Obama si presenta all’annuale discorso al Congresso a camere riunite in una posizione difficilissima. Se l’anno scorso sembrava che egli potesse scalare le montagne e aprire gli oceani con la sola forza del pensiero, oggi sembra che qualunque cosa faccia sbagli. I suoi errori, almeno sul piano della politica economica, sono in effetti stati tanti e gravi. Il peccato capitale è stato pensare di potere sfruttare la crisi per trasformare l’economia e la società americana aumentando in modo permanente l’intervento del governo. L’esatto opposto della strategia reaganiana di «affamare» lo Stato riducendo le tasse: «ingrassarlo» aumentando le spese senza copertura.
Così si spiega l’uso dello stimolo fiscale per spese a lungo periodo, come i sussidi agli investimenti nell’economia «verde», la riforma sanitaria che accentua la spirale dei costi della sanità, gli enormi sussidi ai sindacati in ogni modo e forma, dal salvataggio dell’industria automobilistica, alla accettazione dei paletti da loro imposti alla riforma della scuola pubblica, alle esenzioni fiscali per forme di assicurazione sanitaria offerte dai datori di lavoro solo se in accordo con le parti sociali.
L’altro grande errore di Obama è stato quello di avallare un politica finanziaria che, pur facendo a momenti alterni la voce grossa con Wall Street, in realtà ne ha assecondato ogni desiderio. Ha accettato senza discutere la teoria che le banche fossero troppo grandi e interdipendenti perché il regolatore potesse intervenire razionalizzandone le posizioni senza ingenerare il panico. Ha riempito le banche di liquidità quando esse la richiedevano, senza imporre condizioni. Soprattutto ha garantito che le banche potessero sopravvivere mantenendo l’opacità delle proprie posizioni di bilancio per mezzo di trucchi contabili creativi.
Tutti gli errori di Obama vengono però ora al pettine. Lo stimolo fiscale non sembra aver gli effetti sperati e la disoccupazione è ancora dell’ordine del 10%. Il «Congressional Budget Office» (una specie di Ragioneria Generale abbastanza indipendente) produce stime del deficit pubblico pari al 9,2% del Pil per il 2010 (9,9% per il 2009), percentuali mai viste dalla seconda guerra mondiale. La reazione contro la riforma sanitaria, che i media hanno cercato di catalogare come frutto delle ossessioni di una frangia di repubblicani estremisti, ha invece addirittura intaccato l’invincibile fortino democratico in Massachusetts. Le banche, ottenuti i regali, trattano le intemperanze populistiche dell’amministrazione riguardo ai loro bonus con arroganza e supponenza. Il Congresso costringe il ministro del Tesoro Geithner a testimoniare, rivelando come e quanto egli abbia favorito banchieri amici, quando era a capo della Federal Reserve di New York e i mercati stavano implodendo.
Davanti a tutto questo, e davanti al crollo della fiducia del Paese nei suoi poteri magico-religiosi, il presidente Obama sta tentando di reagire. Nelle parole la sua è una specie di inversione a U. Si preoccupa della spesa pubblica senza controlli e ne propone un parziale congelamento, è forse pronto a un compromesso sulla riforma sanitaria, propone una tassa punitiva sulle banche e annuncia di volerne controllare le dimensioni, per evitare di essere in futuro costretto ancora a salvarle in caso di crisi. Ma per ora queste sono solo parole. Anche la proposta di congelamento della spesa è relativamente irrisoria: si applicherebbe solo al 17% del bilancio, a spese che hanno visto un incremento del 25% l’anno scorso. Staremo a vedere se l’inversione è reale o solo il tentativo di cavalcare una diversa onda populistica.
Ma i problemi del presidente Obama non sono finiti qui. Il World Economic Forun di Davos rischia di dimostrare a tutti che gli Stati Uniti non hanno la forza di imporre una riforma della governance dei sistemi finanziari mondiali, né hanno la visione di un nuovo ordine commerciale e finanziario a cui la Cina possa contribuire attivamente. Al contrario l’amministrazione americana sembra ancora usare la Cina come capro espiatorio ai propri problemi. Per ora soprattutto a parole, minacciando sanzioni commerciali a meno che essa non proceda a rivalutare lo Yuan. Proprio ora che il governo cinese sembra muoversi verso politiche che accelerino lo sviluppo del consumo interno nel Paese! Basta che non si passi ai fatti (molti in Europa non aspettano altro). Non vorremmo dover annoverare anche il protezionismo tra i grandi errori della politica economica di Obama.
Alberto Bisin