Nicola Cabibbo, La Stampa 27/1/2010, pagina 26, 27 gennaio 2010
TRA FOSSILI E PARTICELLE LA GRANDE SFIDA DELLA LUCE E DELL’OMBRA
Nella mia vita mi sono occupato di cose molto concrete anche se apparentemente riposte come il comportamento delle particelle elementari. Al confronto di queste il tema della chiarezza - che mi è stato chiesto dall’Accademia dei Lincei - mi sembrava ben più astratto di qualunque problema avessi mai affrontato o che amassi affrontare. La preparazione della conferenza è così, essa stessa, diventata una ricerca.
Per un istante ho sperato di trovare una soluzione al mio problema in quelle «Lezioni Americane» che Italo Calvino avrebbe dovuto tenere ad Harvard nell’autunno del 1985. Ricordavo i titoli di alcuni capitoli: leggerezza e rapidità, non ce n’era per caso anche uno sulla chiarezza da cui trarre ispirazione? Purtroppo no: le altre tre lezioni riguardano l’esattezza, la visibilità, la molteplicità, ma ahimé non la chiarezza. Della sesta rimane il titolo inglese, «consistency», «coerenza», ma la scomparsa di Calvino nell’estate 1985 interruppe il lavoro e le cinque lezioni apparvero postume.
Il posto d’onore
La scienza è ben presente nelle «Lezioni Americane»: spetta a Galilei il posto d’onore nel capitolo sulla rapidità, a Leonardo in quello sull’esattezza, a Douglas Hofstadter nel capitolo sulla visibilità. Le sei «proposte» di Calvino si applicano alla scienza tanto quanto alla letteratura. La leggerezza potrebbe riportarci ad Enrico Fermi, maestro nel trovare semplicità nei fenomeni più complessi. La molteplicità al metodo di lavoro di Richard Feynman, che amava affrontare un problema con una varietà di metodi diversi. La coerenza è un’esigenza centrale di qualunque ricerca: nelle scienze sperimentali si traduce nella ripetibilità delle misure, specie se eseguite con metodi differenti. La coerenza è stata il tema centrale della matematica nella prima metà del Novecento, tema per sempre associato ai nomi di David Hilbert, Kurt Gödel, Alan Turing.
Riflettendo, che Calvino non abbia incluso la chiarezza tra le sue «Lezioni» potrebbe non stupire. Se la scienza mira a fornire un’immagine del mondo priva di ombre, la letteratura proprio nell’ombra, nella molteplicità di significati e di interpretazioni, raggiunge spesso i suoi risultati più alti. Senza dimenticare, però, che la chiarezza fa la sua apparizione nel tanto commentato di passaggio del «Portrait of an Artist as a Young Man» di James Joyce, in cui Stephen, il protagonista, discute del concetto tomistico di «claritas» come uno dei tre attributi della bellezza: «... ad pulchritudinem tria requiruntur. Integritas, ...consonantia, ... claritas». Qui Tommaso sta discutendo gli attributi del Figlio, cioè del Verbo, termine che possiamo riferire tanto alla scienza quanto all’arte della parola.
Per tornare alla scienza possiamo farci aiutare da Galilei, grande scienziato ma anche grande letterato, che molti, tra cui Giacomo Leopardi o lo stesso Calvino pongono tra i massimi scrittori italiani. Galilei è uno dei pochi, tra i grandi scienziati del passato, le cui opere siano leggibili ancora oggi. «Parlare oscuramente lo sa fare ognuno ma chiaramente pochissimi». La passione di Galilei per la chiarezza si inquadra nel suo ambizioso progetto di ricongiungere lo studio della natura - la scienza - da una parte alla filosofia, dall’altra al mondo delle tecniche e delle arti. Nelle origini del pensiero greco, da Talete a Democrito sino a Platone o Aristotele o Epicuro, filosofia e scienza non erano distinte.
Nel mondo ellenistico, la cui capitale ideale si era spostata da Atene ad Alessandria, e che vide nella Biblioteca il primo grande esempio di istituto di ricerca, si realizzò, con scienziati del calibro di Archimede, la prima saldatura tra il mondo della scienza e quello delle tecniche. Ebbe così inizio, come mostrato da Lucio Russo nel suo «La Rivoluzione Dimenticata», una vera e propria rivoluzione scientifica, interrotta dalla conquista romana. Lo sviluppo delle tecniche non si fermò, ma l’interesse per la scienza si ridusse a ben poco.
Per far progredire il suo progetto di unificazione, Galilei richiese ed ottenne di essere nominato non solo matematico, ma anche filosofo primario presso la corte dei Medici. Per tutta la vita perseguì il perfezionamento di nuovi strumenti di misura: la «bilancina», il telescopio, il microscopio, pendoli, piani inclinati. Filosofia e tecniche appaiono assieme nelle frasi di Salviati che aprono la prima giornata dei «Discorsi» su due nuove scienze: «Largo campo di filosofare... parmi che ponga la frequente pratica del famoso arsenale di Voi Signori Veneziani, atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande di artefici, tra i quali... è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso». Ecco quindi l’esigenza di chiarezza e la scelta di scrivere in lingua volgare, la sola che potesse essere compresa sia dai «filosofi» che dagli «artigiani».
La chiarezza degli scritti galileiani sembra scomparire nella letteratura scientifica successiva, cominciando da Newton, i cui «Principia Mathematica» sono solamente accessibili, e con fatica, a fisici o matematici esperti. Lo aveva presagito Galilei nel celebre passaggio del «Saggiatore» sul libro della natura, «scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure matematiche». Solo imparando la lingua matematica si può leggere questo libro: il volgare non basta. Tant’è che lo stesso Galilei, nella terza e quarta giornata dei «Discorsi su due nuove scienze», inserisce un trattato sul moto scritto in latino, articolato in lemmi, teoremi, corollari, intervallato da brevi discussioni e chiarimenti in italiano. Il necessario ricorso al linguaggio matematico, o comunque a linguaggi specializzati, non detrae dalla ricerca di chiarezza che è una esigenza centrale delle scienze.
Chiarezza nelle scienze significa la capacità di offrire un’immagine chiara dell’Universo e del suo funzionamento, ma significa anche la chiara visibilità e tracciabilità della catena di misure e deduzioni che portano ad un dato risultato, in modo da poter valutare la solidità di ogni anello della catena, e quindi del risultato annunciato. L’immagine dell’Universo che la scienza offre deve essere fruibile a tutti e può e deve essere veicolata nel linguaggio ordinario. Notiamo con piacere il grande successo, in tempi recenti, della letteratura di divulgazione scientifica, specie nel mondo anglosassone, ma con eccellenti esempi anche in Italia. Una presentazione dei risultati scientifici che permetta un accurato esame della logica e dei metodi utilizzati richiede quasi sempre, viceversa, l’uso di linguaggi tecnici o del linguaggio matematico, ma questo tipo di comunicazione è principalmente rivolta a scienziati.
Esaminiamo anzitutto qualche aspetto della chiarezza come tracciabilità dei metodi e delle logiche, tracciabilità che distingue le scienze da molte altre discipline intellettuali. Con la possibile eccezione delle matematiche, gli anelli che, legati l’uno all’altro, portano ad un dato risultato non sono mai totalmente solidi. Specie se la catena è lunga, un margine di oscurità può rimanere. Ecco quindi l’importanza di poter ottenere un dato risultato per strade diverse. Pensiamo all’evoluzione biologica: un caso esemplare è la determinazione dell’era, tra 6 e 10 milioni di anni fa, nella quale la branca umana si è separata dagli altri primati. Lo studio dell’orologio genetico, la velocità con cui si accumulano le mutazioni che causano la divergenza tra specie diverse, indica in circa 10 milioni di anni l’anzianità della branca dei primati caratterizzata dalla bipedalità cui noi stessi apparteniamo. Un valore leggermente minore, ma compatibile con quello dell’orologio genetico, se teniamo presenti i margini di errore dei due metodi, si ottiene dallo studio dei fossili. La scoperta nell’Afar, in Etiopia, di «Ardi», uno scheletro relativamente completo di Ardipithecus Ramidus, ha spinto a circa 4,4 milioni di anni la documentazione fossile di qualità sugli ominidi. Che due metodi totalmente indipendenti tra loro, genetica e fossili, portino allo stesso risultato rappresenta uno dei trionfi delle ricerche sull’evoluzione umana.
La tracciabilità delle procedure sperimentali è essenziale giacché un errore è sempre possibile. Le conclusioni che si traggono da un esperimento dipendono da una catena di ipotesi sul funzionamento degli apparati sperimentali e, specie nel caso di apparati complessi e relativamente nuovi, un errore è sempre possibile. Col passare del tempo gli strumenti vengono utilizzati in esperimenti differenti, se ne apprendono i punti deboli, e la probabilità di errore decresce rapidamente. Non deve quindi stupire se gli errori che ricordo nel mio campo di studio, la fisica delle particelle elementari, risalgano agli Anni 50 e 60 piuttosto che ai decenni successivi.
Ho parlato di catene di misure e deduzioni che portano ad un risultato, ma gli anelli di queste catene sono poi uniti in orizzontale a formare una vera e propria rete, in quanto gli stessi metodi e strumenti possono essere utilizzati in molti esperimenti differenti. La verifica, per vie indipendenti, di un risultato ottenuto con un certo metodo fa crescere la credibilità dello stesso metodo in esperimenti diversi. Che l’orologio genetico abbia dato buoni risultati nel determinare l’antichità degli ominidi, come confermato dalla documentazione fossile, ne aumenta la credibilità, se applicato ad altri gruppi del regno animale per i quali l’informazione fossile sia ancora insufficiente.
Non solamente la comunanza di strumenti, ma anche la teoria serve da collante orizzontale tra gli esperimenti. Un caso interessante è la cosiddetta teoria V-A delle interazioni deboli di Feynman e Gell-Mann. Questa teoria, pubblicata nel 1957 e formulata sull’onda della scoperta della violazione della simmetria di parità, rappresentava un perfezionamento della teoria della radioattività beta di Enrico Fermi. La teoria era in contrasto con due esperimenti recenti, il primo relativo alla radioattività beta di un isotopo pesante dell’elio, He6, il secondo alla disintegrazione del mesone p in una coppia elettrone-neutrino. Gli autori decisero di pubblicare comunque, suggerendo una ripetizione dei due esperimenti, convinti dall’eleganza della propria teoria - anche l’eleganza sarebbe un bel tema per una lezione post-calviniana - e dal fatto che fosse in accordo con una serie di altri risultati sperimentali. Avevano perfettamente ragione, molti esperimenti successivi mostrarono che in ambedue i casi gli esperimenti originali avevano dato risultati sbagliati. Se una teoria, e soprattutto una teoria elegante, inquadra con chiarezza una lunga serie di dati sperimentali, è giusto sospettare della correttezza di uno o due esperimenti che siano in disaccordo. Ricordo che Bruno Toushek, con cui assieme a Francesco Calogero e Paolo Guidoni avevo intrapreso il lavoro di tesi, aveva intuito essenzialmente la stessa teoria di Feynman e Gell-Mann, ma si era purtroppo fermato di fronte ai risultati sull’elio pesante.
Io stesso ho dovuto superare un simile scoglio qualche anno dopo, nel 1963. Una delle conseguenze della mia teoria sulle disintegrazioni delle cosiddette particelle strane era la proibizione di alcuni tipi di decadimenti degli iperoni. Ma un evento del tipo proibito era stato osservato a Berkeley. Imparata la lezione da Feynman e Gell-Mann, decisi di pubblicare lo stesso, citando la difficoltà e indicando una possibile (ma poco elegante) via di uscita, se l’esistenza di eventi proibiti fosse confermata. A quasi mezzo secolo di distanza il numero di eventi osservati è aumentato di un milione di volte, ma l’evento di Berkeley non si è mai ripetuto. Gli autori di quel lavoro avevano chiaramente esposto i passi che li avevano convinti di avere veramente osservato un evento proibito, e la probabilità che uno dei passi fosse in errore. Possiamo solo concludere che, per quanto improbabile, l’errore si era realizzato.
Con il passare del tempo, l’esecuzione di nuovi esperimenti, il raffinamento delle teorie, la rete si rafforza, vecchi errori vengono eliminati e la scienza si approssima passo a passo a quell’ideale di chiarezza nella descrizione della natura che non è mai però raggiunto. Pensiamo allo sviluppo delle teorie copernicane così accesamente difese da Galilei. Bisogna aspettare quasi un secolo per la prima dimostrazione diretta del moto della Terra, ottenuta da James Bradley nel 1727, un secondo secolo per una nuova dimostrazione con la misura, nel 1837, del primo esempio di parallasse stellare, dovuta a Friedrich Bessel, e il 1851 per la prima dimostrazione del moto rotatorio della Terra, con il pendolo di Foucault.
La mole dell’ignoranza
Se guardiamo allo sviluppo dell’astronomia e della cosmologia negli ultimi decenni, il progresso rispetto a quanto si sapeva ai tempi di Galilei è impressionante, ma altrettanto impressionante è la mole della nostra ignoranza. Da un Universo limitato ai dintorni della Terra e del Sole, e ai pochi pianeti visibili, siamo oggi ad un Universo apparentemente illimitato, popolato da galassie. Abbiamo anche imparato che la materia visibile rappresenta solo una piccola frazione della massa dell’Universo, e che materia oscura ed energia oscura si suddividono il resto. Gli effetti gravitazionali della materia oscura permettono di tracciarne la distribuzione, ma ben poco sappiamo della sua natura e della sua origine. Ancora meno sappiamo dell’energia oscura, che è responsabile dell’espansione accelerata dell’universo, e rappresenta i tre quarti della sua massa.
Un quadro non tanto differente si presenta nel mondo delle particelle elementari, dove agli enormi progressi degli ultimi decenni si affianca l’enormità dei problemi aperti. Uno per tutti, quale sia la connessione tra la forza di gravità, per cui si moltiplicano le verifiche della teoria di Einstein, e il mondo dei fenomeni quantistici. La scienza mira a fornire un’immagine del mondo priva di ombre. vero, ma nel disperdere una ad una le ombre se ne svelano di nuove, cosicché lo scienziato si trova perennemente - e in questo non è differente dal letterato o dall’artista - a vivere «inbetween», nella zona di confine tra luce ed ombra. Zona di confine ben rappresentata dai «Concetti Spaziali» di Lucio Fontana, quadri in cui un taglio su una tela bianca suggerisce l’esistenza di un mondo ulteriore i cui dettagli restano da scoprire. Nelle parole del celebre esploratore Giuseppe Tucci «la scienza, sappiamo, è continuo trascolorare del certo nel dubbio, ed ogni suo avanzamento si misura non dalla luce che esso fa, quanto piuttosto dal maggior rilievo delle zone d’ombra che viene additando».
Il testo che pubblichiamo di Nicola Cabibbo fa parte di un ciclo di conferenze promosse dell’Accademia Nazionale dei Lincei sul tema dei valori: l’obiettivo - spiega il presidente Lamberto Maffei - «è sostenere e rinnovare i valori che hanno sempre accompagnato e arricchito ogni nuova crescita dell’umanità, evitando che questi valori possano essere trascurati o persi di vista nella fretta della globalizzazione». Nelle intenzioni del presidente «l’Accademia deve sempre più aprirsi all’esterno e affrontare problemi emergenti che interessano la società, primo tra tutti quello dell’etica nel pensare e nell’agire». E’ anche compito dell’Accademia - aggiunge - contrastare gli atteggiamenti irrazionali che minano il rigore del pensiero e la correttezza dei comportamenti. E’ su questa linea che si dipanano le «Conferenze Lincee a Classi Riunite», iniziate con la relazione di Carlo Ossola su «Matrici di valori: coerenza e permeabilità».
Nicola Cabibbo