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 2010  gennaio 27 Mercoledì calendario

DOPO IL SISMA L’ESODO SULLE CARRETTE DEL MARE

Jacmel (Haiti). «Il Signore ci protegga». E’ questo uno dei nomi delle carrette del mare con le quali i terremotati haitiani fuggono alla ricerca di una nuova vita. Il grande esodo dall’orrore del terremoto è iniziato subito dopo il sisma ed ha i volti e i nomi di tutti quei sopravvissuti a cui non è rimasto niente e nessuno e per i quali l’unica scelta è andarsene. Sono state decine di migliaia secondo le stime dell’Onu i viaggi della speranza sino ad oggi compiuti con mezzi di fortuna di ogni genere, lungo percorsi improbabili e quasi sempre illegali, e talvolta finiscono in tragedia. I ricchi, quelli che abitano sulla collina di Petionville a Port-au-Prince, si imbarcano su aerei ed elicotteri privati o dei contrabbandieri, pagando laute ricompense. Per chi non se lo può permettere, ovvero per la grande maggioranza, la missione è assai più difficile.
La marina Usa: non salpate
C’è chi via terra tenta di raggiungere il confine cercando un valico nelle città frontiera di Dajabon, Jimani e Quanamithe ma la chiusura e i rigidi controlli della polizia di frontiera domenicana rendono sempre più difficili le infiltrazioni dei profughi, a meno che al mercato nero della capitale non si compri un passaporto e un visto per 200 dollari. La grande fuga avviene sempre più spesso in mare dalle città settentrionali di Port Haitiene, Cape Rouge o Port de Paix. Lì vicino pochi giorni dopo il sisma aveva attraccato la nave da crociera carica di turisti, sollevando non poca indignazione. Gli sfollati salpano verso Guantanamo seguendo la stessa rotta che i rifugiati seguivano per scappare dalla rivolta della prima deposizione di Aristide nei primi Anni Novanta venendo spesso soccorsi dalle unità della Marina militare americana che li accoglieva nella base navale cubana. Ma questa volta i militari Usa non consentono di oltrepassare le acque territoriali e se intercettano un’imbarcazione la scortano indietro. La Guardia costiera americana ha più volte rivolto appelli alla popolazione affinché non si avventuri in mare specie dalle spiagge di Port-au-Prince al largo delle quali le correnti sono fortissime tanto da aver inghiottito decine di dannati in fuga sulle zattere.
Il traffico dei contrabbandieri
L’altra via di fuga è quella meridionale che parte da Marigò, un piccolo villaggio di pescatori vicino a Jacmel, dove ogni giorno arrivano barconi carichi di cibo e di merci, talvolta illegali, come le taniche di benzina riempite in Repubblica Dominicana e vendute a prezzi maggiorati agli haitiani. Su queste imbarcazioni larghe dalla chiglia piatta e dipinte con le tipiche tonalità caraibiche tentano la fuga i disperati. Un viaggio di sei ore per 50 miglia marine da percorrere rigorosamente di notte per essere lasciati ad Anse-a-Pitre, l’ultimo villaggio haitiano prima del confine che non si può raggiungere via terra. «Da lì valicano alcuni tratti del tutto privi di controllo e raggiungono Pedernales, il primo villaggio domenicano», ci dice Ramirez, un pescatore metà creolo e metà ispanico molto conosciuto al porticciolo di Marigò. Il prezzo è di 50 dollari ma offrendone quattro volte tanti le barche possono spingersi anche un po’ più in là. «Superare le acque territoriali è più rischioso, ci sono le vedette della missione Mano Amiga che pattugliano notte e giorno», prosegue. La prossima a partire è «il Signore ci protegga», ma bisogna aspettare due giorni, le tratte hanno un calendario ben preciso.
Troppe le vittime nei barconi
«I viaggi della speranza si sono intensificati specie nell’ultima settimana», ci dice il capitano Marindano che nelle ultime due settimane ha pattugliato notte e giorno le coste al largo del confine. Ripercorriamo a bordo della sua vedetta la stessa rotta dei contrabbandieri, le acque sono molto agitate specie nel primo tratto proprio dove i barconi si capovolgono con maggiore frequenza. «Abbiamo salvato diversi haitiani – dice il militare – per altri non abbiamo potuto far nulla». Una rivolta arrivati a Pedernales il viaggio prosegue verso Santo Domingo su una corriera da 20 posti dove se ne accalcano almeno il doppio assieme a un paio di galline e carichi di banane. Servono sette ore per percorrere 320 chilometri, le strade sono a tratti impervie, e i posti di blocchi frequenti, ne abbiamo contati almeno dieci. Il primo appare dopo appena due minuti di viaggio: ad essere controllati sono sempre gli stessi, i creoli. Ce ne sono almeno cinque sul bus, uno viene portato via, gli altri rimangono. Tra loro c’è Joaquin, ha parenti in Francia, li sta per raggiungere. «Il tempo necessario per organizzarmi e poi tornerò ad Haiti per aiutare la mia gente». E nel frattempo? «Speriamo che gli Stati Uniti e l’Onu facciano il loro dovere, che il Signore ci protegga».
Francesco Semprini