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 2010  gennaio 26 Martedì calendario

FUTURO DELLA MACEDONIA GRATTACAPO PER BRUXELLES

In questi giorni si parla degli Stati nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, ma non sento nulla a proposito della Macedonia. Non so nemmeno se sia già diventata uno Stato indipendente. E com’è la situazione politica in quella regione?
Lucia Sala, Monza
Cara Signora, con una eccezione (la Slovenia), tutte le repubbliche della ex Jugoslava sono stati «partorite nel dolore» e hanno sin dalla nascita almeno due handicap: la presenza di minoranze etniche, talora espulse o drasticamente ridotte con la forza, e confini incerti o contestati. La Macedonia, indipendente da 19 anni, ne ha un terzo, per molti aspetti ancora più grave: non ha un nome. Quando proclamò la sua indipendenza, la Grecia rifiutò di riconoscere uno Stato che pretendeva entrare nella società internazionale con il nome di una sua provincia e poteva in tal modo accampare diritti sulla Macedonia greca. Dopo molti cavillosi negoziati fu deciso che il nuovo arrivato avrebbe avuto, almeno per il momento, una designazione burocratica. Si sarebbe chiamato Former Yugoslav Republic of Macedonia (Ex Repubblica jugoslava di Macedonia), con una formula simile a quella dei negozi che conservano nell’insegna, per non perdere la clientela, il nome, preceduto da una ex, dei vecchi proprietari. E poiché il nome è troppo lungo per l’uso corrente, la Macedonia, nelle sedi internazionali, è «Fyrm».
Quando il problema della denominazione sembrava provvisoriamente risolto, l’esistenza dello Stato fuminacciata da un movimento secessionista della minoranza albanese (il 17% di una popolazione pari a circa due milioni di abitanti) e il rischio fu evitato grazie a un accordo di convivenza negoziato dall’Unione Europea. Da allora il Paese ha registrato qualche progresso e ha meritato un rapporto favorevole dell’Ue, pubblicato nell’ottobre dell’anno scorso. Secondo Bruxelles vi sono ormai le condizioni per l’inizio dei negoziati di adesione, ma occorre, anzitutto, che il problema del nome venga definitivamente risolto e che la Grecia rinunci a esercitare un diritto di veto sull’inizio dei negoziati. Toccherebbe quindi ai greci ammorbidire la loro posizione o fare qualche costruttiva proposta. Ma il governo Papandreou rischia la bancarotta e ha altri problemi urgenti di cui occuparsi.
Il rinvio, di per sé, non sarebbe grave se le diverse componenti della società macedone non avessero approfittato dello stallo per riaprire il fronte dei loro dissidi domestici. Le condizioni del Paese sono ora descritte in un rapporto di Ethnobarometer (www.ethnobarometer.org), un istituto europeo di ricerche sulle migrazioni e le relazioni interetniche, costituito a Roma nel 1997 per iniziativa del Consiglio italiano per le scienze sociali. In una analisi allegata al rapporto, il direttore dell’istituto, Alessandro Silj, scrive che gli albanesi della Macedonia vogliono l’Europa «a tutti i costi». In altre parole, se il problema del nome non si risolve e la Grecia continua aminacciare il veto, la minoranza albanese è pronta a chiedere l’unione con l’Albania. Nella maggioranza slava, d’altro canto, vi sono quelli che sono giunti per le stesse ragioni a conclusioni analoghe e desiderano l’unione con la Bulgaria. In questo modo sia gli uni che gli altri riuscirebbero a entrare, anche se con passaporti diversi, nella Ue. Ma Silj ricorda giustamente che la scissione, in un’area caratterizzata da frontiere contestate, può innescare una pericolosa reazione a catena. Che cosa farà l’Albania? Che cosa faranno gli albanesi della Serbia e del Montenegro? Che cosa faranno i serbi del Kosovo? Che cosa accadrà delle minoranze rom e turca della Macedonia? Silj pensa che l’Unione Europea non dovrebbe attendere la soluzione del problema del nome per iniziare i negoziati e dovrebbe contemporaneamente intervenire nelle vicende domestiche della Macedonia con la stessa autorità di cui dette prova quando riuscì a negoziare il compromesso del 2001. In caso contrario converrà tenere d’occhio questo angolo d’Europa nei prossimi mesi e prepararsi al peggio.
Sergio Romano