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 2010  gennaio 26 Martedì calendario

LE COLPE DELL’AFRICA NELLA TRATTA DEI NERI

Non fu solo l’America a cambiare profondamente in seguito alle navigazioni europee del XV secolo e a fare il proprio ingresso – ciò che è oggetto da secoli di studi sempre più approfonditi – in una nuova era della storia. Assieme al Nuovo Mondo entrò in contatto con l’Europa (e ne fu radicalmentemodificata) anche l’intera regione dell’Africa centro-occidentale, a sud dell’odierno Camerun, che fino a quel momento era rimasta pressoché isolata. Ma questo secondo impatto, ancorché non meno rilevante del primo, è stato assai poco investigato dagli storici. perciò da salutare come un evento felice la pubblicazione in Italia del capolavoro dello studioso bostoniano John Thornton, L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico. 1400-1800, che il Mulino manderà in libreria l’11 febbraio.
Lavori di impianto scientifico moderno sulla storia dell’Africa sono comparsi in libreria per la prima volta intorno al 1960. Capostipite di questo genere di studi può essere considerato Séville et l’Atlantique.
1504-1650, nove volumi di Pierre e Huguette Chaunu interamente basati sull’archivio storico di Siviglia. A cui fece seguito Le Portugal et l’Atlantique au XVII siècle. 1570-1670 di FrédéricMauro. Ma a differenza di Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), nel quale Fernand Braudel aveva certificato per tutti i Paesi mediterranei dell’epoca da lui studiata lo stesso stadio di sviluppo economico, gli Chaunu eMauro consideravano l’Africa che si affacciava sull’Atlantico come una regione infinitamente più arretrata dell’Europa entrata in contatto con il continente nero, ciò che rendeva i loro libri viziati da un eurocentrismo a tratti eccessivamente marcato. A correggere questa impostazione venne in seguito una nuova leva di storici, André Gunder Frank, Walter Rodney, Immanuel Wallerstein, Eric Wolf, che si collocavano a metà strada tra la scuola delle «Annales» e l’analisi marxista, intrecciandone i metodi. Ma il loro risultato, per quel che riguarda l’Africa, non fu granché dissimile da quello degli Chaunu e diMauro. Nel senso che, ancorché avessero un approccio critico nei confronti delle potenze coloniali europee e nutrissero un’evidente simpatia per la causa del Terzo Mondo, anche questi storici finivano per considerare l’Africa come una vittima passiva dei Paesi coloniali. Con ciò ribadendo la superiorità militare ed economica di questi ultimi a fronte del «ritardo» e del «sottosviluppo» africano.
E quando si affacciò sulla scena il primo storico nazionalista africano, Basil Davidson, che pure spese una vita per dimostrare quanto i neri avessero alle spalle una «vera storia» e da molti secoli prima dell’età coloniale avessero esercitato un pieno controllo sul destino del proprio continente, al momento di parlare della tratta degli schiavi si tornò’ e non fu esclusivamente Davidson – non solo ad assegnare all’Africa un livello di sviluppo inferiore rispetto all’Europa, ma a indicare nello squilibrio tra Europa e Africa la causa del traffico schiavista. Con il che si ribadiva un’immagine dell’Africa arretrata e passiva ancorché (o proprio per il fatto di essere) vittima della potenza e dell’ingordigia europea. Eppure storici successivi – Sterling Stuckey, Sydney Minz, Richard Price, Albert Raboteau, Mechal Sobel, Margaret Washington Creel – hanno portato prove su prove del background dinamico e creativo degli africani in America: giunsero sì come schiavi, ma il loro apporto fu poi fondamentale per lo sviluppo culturale oltreché economico degli Stati Uniti. Ma anche questi studiosi non sono riusciti ad afferrare pienamente le dinamiche delle società africane precoloniali. Con la conseguenza che è rimasto inesplicato da dove traesse origine il background di cui si è detto che tanto giovò agli Stati Uniti.
Il libro di Thornton rivoluziona questo campo di studi. Dimostra che il commercio atlantico non fu così essenziale al benessere e allo sviluppo degli africani. Che l’Africa precoloniale possedeva un’economia molto più varia e produttiva di quanto si sia sempre pensato. Che gli europei non avevano la forza militare necessaria a «costringere» gli africani a partecipare a qualsiasi tipo di commercio che i loro leader non avessero liberamente scelto di intraprendere. Che l’intero commercio africano con l’Atlantico, inclusa la tratta degli schiavi, fu «volontario». Che ben prima del XV secolo la schiavitù era una pratica assai diffusa nelle società africane, che il loro sistema dava molta importanza ai rapporti giuridici di schiavitù per fini politici e che un numero relativamente grande di persone fu probabilmente schiavo, per un lasso di tempo, almeno una volta nella sua vita.
E qui l’autore punta l’indice contro gli «africanisti», accusandoli di non essersi mai «interessati a quegli aspetti della società e della storia dell’Africa che avrebbero chiarito la natura delle interazioni con il mondo atlantico: in particolare essi non si sono mai chiesti come il background africano degli schiavi afroamericani abbia inciso sulle loro reazioni al nuovo ambiente». Di fatto gli «africanisti» hanno sempre considerato il destino degli africani solo una volta che questi erano arrivati nelle Americhe. Mentre c’era un grande passato africano da investigare e riportare alla luce. A questo punto, afferma Thornton, c’è bisogno di «una revisione sostanziale nella storiografia esistente», anche se essa «abbatterà alcuni pilastri della tradizionale visione di un’Africa vittima degli europei».
Si può senz’altro sostenere, afferma Thornton, «che le relazioni commerciali tra Africa ed Europa furono piuttosto simili alle altre relazioni economiche internazionali di quel periodo; questa tesi è surrogata dal fatto che gli africani furono commercianti esperti, che non subirono il dominio dei mercanti europei né in virtù di un presunto controllo che questi ultimi esercitavano sui mercati né di una presunta superiorità nelle tecniche commerciali o di produzione». Ma gli storici, in questo influenzati dalle ricerche demografiche, hanno sempre messo in rilievo gli effetti nocivi della tratta degli schiavi, il danno provocato all’intera regione dalla perdita di maschi adulti. In particolare il già citato Rodney ha scritto che il commercio «forzato» degli schiavi aveva causato all’Africa uno sconvolgimento sociale (guerre e danni militari), alterato i sistemi giuridici e aumentato le disuguaglianze. Successivamente, però, nuovi storici (J.D. Fage, David Eltis) hanno sostenuto che la schiavitù era già ampiamente diffusa prima dell’arrivo degli europei e aveva carattere autoctono nella società africana, così come era presente un commercio di schiavi. Gli europei si sarebbero limitati a sfruttare questo mercato preesistente e gli africani avrebbero risposto alla domanda in crescita nei secoli successivi fornendo sempre più schiavi. Ed è questo il punto per Thornton: «Non è possibile accettare la tesi secondo cui gli africani sono stati obbligati a partecipare a questo mercato contro la loro volontà. (…) La schiavitù era diffusa in Africa, la sua crescita e il suo sviluppo furono in gran parte indipendenti dalla tratta atlantica; il commercio atlantico stimolava e sviluppava il mercato interno incentivando una più diffusa ricerca di schiavi. (…) La tratta atlantica de-
gli schiavi fu un’appendice di questo mercato interno».
Ma perché la schiavitù si era così diffusa in Africa? Per il fatto che, risponde l’autore, gli schiavi rappresentavano l’unica forma di proprietà privata capace di produrre reddito che fosse riconosciuta dalle leggi. E in Europa, invece? Nel vecchio continente la forma principale di proprietà privata in grado di produrre ricchezza era rappresentata (e giuridicamente riconosciuta) dalla proprietà terriera, istituto praticamente sconosciuto in Africa. Jack Goody ha sostenuto che nel continente nero di terra ce n’era troppa per la bassa densità di popolazione e che sarebbe questo che avrebbe causato l’arretratezza di quella vasta area geografica. Ma anche qui Thornton non è d’accordo: nel XVII secolo’ sostiene’ la densità media della Bassa Guinea (corrispondente all’incirca alla metà meridionale del Ghana, Benin, Togo e Nigeria) ammontava a più di 30 persone per chilometro quadrato, ben oltre quella dell’Europa nello stesso periodo, tant’è che i padri cappuccini che visitarono l’area nel 1662 osservarono che era così popolosa da rassomigliare a un «continuo e nero formicaio».
Dunque, prosegue Thornton, «abbiamo buone ragioni per credere che in Africa non esistesse né la grande né la piccola proprietà, ossia piccoli appezzamenti di terra posseduti dai contadini o destinati all’affitto. Naturalmente a ciò deve essere aggiunto che il sistema giuridico africano non garantiva ai piccoli coltivatori la sicurezza del possesso. (...) Quel che sappiamo (da nuovi studi, ndr) induce a ipotizzare che chi coltivava la terra fosse piuttosto sicuro del proprio diritto a farlo, ma probabilmente non avesse la facoltà di venderla, alienarla o affittarla e comunque abbiamo sufficienti elementi per credere che gli africani possedessero i prodotti della terra ma non la terra stessa». Fin qui, negli studi sul continente, le società africane precoloniali sono state descritte come retrograde perché in esse lo Stato limitava fortemente l’iniziativa privata dal momento che non garantiva la certezza del profitto; in particolare gli studiosi ritenevano che l’assenza di ogni forma di ricchezza privata che non fosse mediata dallo Stato, avesse impedito l’emergere del capitalismo e, in definitiva, avesse bloccato sul nascere ogni sorta di progresso africano. Niente di più falso, sostiene Thornton. «Se gli africani non disponevano della proprietà privata di uno dei mezzi di produzione (la terra), potevano ancora possedere l’altro, il lavoro (il terzo fattore, il capitale, era relativamente poco importante prima della rivoluzione industriale). La proprietà privata del lavoro perciò procurò agli imprenditori africani ricchezza sicura e riproducibile». In Europa se qualcuno acquisiva delle ricchezze che desiderava investire in maniera sicura e proficua, in genere acquistava della terra. Naturalmente, osserva Thornton, la terra in sé non produceva ricchezza, ma in genere veniva data in uso a mezzadri in cambio di un affitto oppure veniva coltivata da braccianti sotto la supervisione del proprietario, cosicché non era necessario ricorrere a schiavi per procurarsi forza lavoro.
In Africa invece chiunque volesse investire la propria ricchezza in maniera proficua non poteva acquistare la terra dal momento che, come s’è detto, praticamente non esisteva la proprietà terriera. Perciò l’unica via era acquistare schiavi che, in quanto proprietà mobili, potevano essere ereditati e generare ricchezza. Poi non ci sarebbero stati problemi a ottenere la terra da far coltivare agli schiavi, poiché il diritto africano permetteva l’accesso alla terra a chiunque la coltivasse, libero o schiavo, a meno che qualcun altro la stesse coltivando prima di lui. In questomodo gli schiavi rappresentavano la figura equivalente a quella europea del libero affittuario o del bracciante. Anzi le loro condizioni di vita erano addirittura migliori di quelle europee. Giacinto Brugiotti da Vetralla, che raccontò il Congo nel 1659, scrisse che lì esistevano uomini «schiavi solo di nome» in virtù della loro relativa libertà e dell’ampia gamma delle attività in cui venivano impiegati. Gli schiavi giunsero ad avere il ruolo di soldati, amministratori, consiglieri reali, godevano perciò di grande libertà di movimento e di uno stile di vita «talvolta privilegiato».
Così gli allargamenti territoriali non costituirono una priorità per i regnanti africani. Gli storici hanno fin qui indicato questa incapacità africana di erigere grandi Stati duraturi come prova dell’arretratezza del continente. Thornton si concentra invece su entità statuali più piccole, ne dimostra crescita e sviluppo e giunge alla conclusione che le guerre africane che puntavano a ottenere schiavi costituirono l’equivalente delle guerre europee e asiatiche di espansione territoriale: «Mentre la conquista di nuove terre», scrive, «avrebbe comportato l’amministrazione di aree più grandi e l’espansione delle risorse militari, l’acquisizione di schiavi richiedeva brevi campagne che non necessitavano della creazione di nuovi apparati amministrativi». Di più: «La conquista di territori e il loro successivo governo richiedevano di norma la condivisione dei ricavi della terra con i proprietari esistenti, con i notabili e con altri potenti dello Stato sconfitto che potevano sì essere eliminati ma che spesso invece venivano cooptati. (…) Con gli schiavi, al contrario, non era necessario negoziare e si potevano utilizzare individualmente o in piccoli gruppi nelle strutture già esistenti».
In ogni caso uno studio accurato di due grandi realtà africane, il Congo e il Ndongo, nel Quattrocento rende evidente come la schiavitù costituiva già allora quantomeno un fondamentale supporto per i processi di accentramento dei poteri delle monarchie. Gli schiavi erano presenti in tutte le aree dell’Africa atlantica e il mercato degli schiavi era assai sviluppato. Chiunque ne avesse la possibilità, acquistava schiavi nei mercati locali, sebbene talvolta fosse richiesto a questo scopo un permesso statale o reale, come in Costa d’Oro. Dopo la missione diplomatica di Diogo Gomes presso i governanti dell’Africa occidentale nel 1456, che aprì la strada ai mercati a nord del Gambia, le esportazioni di schiavi crebbero a dismisura. Quindi anche prima che le navi raggiungessero il fiume Senegal, i mercanti portoghesi acquistavano schiavi dalle carovane provenienti da nord, dall’avamposto di Arguin, lungo l’antica tratta commerciale transahariana. E il re del Portogallo dovette intervenire per vietare che questi schiavi venissero rivenduti aimusulmani. Non vi sono ragioni, afferma Thornton, per credere che i portoghesi «fossero in grado di forzare il Congo a esportare schiavi contro la propria volontà». Al contrario «le ragioni della crescita della tratta congolese vanno ricercate nella presenza di un sistema di schiavitù sviluppato, di un mercato e di una spedizione di schiavi che preesistevano al contatto europeo». Dobbiamo perciò concludere «che la tratta atlantica degli schiavi e la partecipazione degli africani ad essa avessero solide origini nelle società africane e nei loro sistemi giuridici; l’istituzione della schiavitù era assai diffusa in Africa e accettata in tutte le regioni di esportazione e la cattura, l’acquisto, il trasporto e la vendita degli schiavi erano eventi usuali nella società africana». Dopodiché gli europei incentivarono la tratta con la pressione indiretta causata dalle loro superiori tecnologie militari. Ma questa è un’altra storia.
Paolo Mieli