Paolo Conti, Corriere della Sera 24/01/2010, 24 gennaio 2010
IO E PARISE, UN AMORE A COLORI
«Sono stata fortunata. Non ho mai avuto esitazioni. A dodici anni ebbi una specie di vocazione, proprio come quella che spinge alcune donne a diventare suora. Io ho deciso, ho " sentito", a quell’età che sarei stata un’artista». Nonostante lo scorrere degli anni Giosetta Fioroni conserva (per esempio nel modo di muoversi o di pettinarsi i capelli sciolti o di vestirsi scegliendo colori accesi) quella sveltezza descritta, con intelligente affetto, dal compagno della sua vita, Goffredo Parise: «Giosetta Fioroni è una persona che cammina in modo leggero... Certe volte, non vista, quando ha un po’ fretta saltella come una scolaretta che vuole riprendere il tempo perduto per leggerezza».
Oggi Giosetta Fioroni, nata la vigilia di Natale del 1932, rivede la sua vita personale e artistica grazie all’uscita di un volume di 456 pagine che Skira le ha interamente dedicato con la cura del critico Germano Celant. Lei, l’artista, gli è molto grata: «Celant ha saputo cogliere il complesso intreccio tra la realizzazione delle mie opere e gli stati emotivi della mia esperienza di vita, così come il forte rapporto tra la mia produzione e la letteratura o la poesia, e non solo per via di Goffredo». Un lampo rapido negli occhi. Non è banale nostalgia ma un senso acuto di presenza: «Nella mia esistenza non mi sono mai annoiata un minuto, anche grazie a Goffredo. Il nostro cemento principale era una scelta di vita fatta di slanci, curiosità continue, passioni culturali. Non esisteva un lavoro e un dopo-lavoro».
Infatti Parise è presentissimo, in questo studio nel cuore di Trastevere, vasto quanto un’autorimessa, proprio sotto il Gianicolo (a mezzogiorno le mura tremano per il colpo di cannone) e accanto alla mole di Regina Coeli. Molte splendide fotografie dello scrittore, rigorosamente in un bianco e nero assai caro alla Fioroni, scrutano i visitatori e le opere di Giosetta: «Siamo stati insieme venticinque anni. Non tutto è sempre stato semplice né felice, abbiamo avuto i nostri bei problemi, basta leggere "L’odore del sangue" per capirlo. Ma abbiamo occupato reciprocamente il centro delle nostre due vite. Lui aveva una vocazione forte come la mia. Io ero curiosa di letteratura e lui un curioso dell’arte contemporanea. Goffredo è stato, e resta, il compagno della mia vita».
Nello studio-hangar pieno di sole (il tetto è ricoperto da un piccolo giardino pensile che trasforma quel cubo di cemento in una specie di grande istallazione) tutte le tracce del lavoro di un’artista: barattoli pieni di pennelli usati, prove di colore sulle sedie di legno, teatri grandi e piccoli in legno dipinto. Di lì bisogna cominciare per trovare le radici della vocazione. Un padre scultore, Mario Fioroni, e una madre, Francesca Barbanti, che per la piccola Giosetta organizza incantevoli spettacolini di marionette che lei da sola realizza e riveste (il catalogo li propone tra le opere della figlia). Ancora questa madre creativa la conduce verso la letteratura: «A 17 anni mio nonno la portò a Parigi. Lui volle farle un regalo. Lei chiese la prima edizione della Ricerca del tempo perduto di Proust. Conservo ancora i meravigliosi volumi Gallimard. E la sua biblioteca: i romanzi russi, quelli francesi… Sono cresciuta prima guardandoli e poi leggendoli». Una didascalia del libro di Celant: «In tutto il mio lavoro c’è una specie di matrice comune che è l’infanzia, un’infanzia particolare, vissuta tra elementi molto legati alla visionarietà…». Ecco dunque la passione per i teatrini, che la condurrà da adulta al confronto con Guido Ceronetti. Ecco l’insistenza, nella sua opera, sul tema di lei bambina, di quella foto scattata dal padre nel suo studio che la ritrae a nove anni e resta integra fino alla scultura del 2002 «Giosetta con Giosetta a nove anni», una Fioroni matura che tiene per mano la se stessa del 1941. Ed ecco anche la passione per la letteratura, per il racconto, per la pagina scritta. Altrimenti, perché amare un grande letterato?
Una vocazione richiede un maestro che indirizzi il fervore. Chi è stato, per lei? «Sicuramente Toti Scialoja. Quando mi iscrissi all’Accademia rimasi molto delusa dalla scarsa qualità dei professori. Un giorno vidi un cartellino: "Corso libero del professor Scialoja domani alle 10". Ignoravo chi fosse. Entrai e ne uscii alle 4 del pomeriggio, il tempo scorse via in un lampo. Partiva dal teatro russo d’avanguardia, da Stanislavksij eMeierchol’d, passava per il cinema comico americano sempre d’avanguardia, cioè Buster Keaton, e approdava all’action painting, Jackson Pollock e Willem de Kooning. Ho scritto così in una didascalia del libro: "Le sue lezioni sono state per me, e non solo per me, una vera e propria iniziazione
erotica all’espressività". Siamo rimasti amici per sempre, fino alla sua morte».
Scialoja è solo il primo nome di una vita densissima di incontri, di scambi, di avventure intellettuali. Alexander Calder nel 1956. E, grazie a Scialoja, Alberto Burri («nel suo studio di via Aurora, dietro via Veneto, scoprii i suoi lavori sulle muffe e sulle tele di sacco, ne rimasi colpitissima»). Quindi Gastone Novelli, Piero Dorazio, Achille Perilli. Soprattutto Franco Angeli, Mario Schifano e Tano Festa, sempre lì a piazza del Popolo: «La definizione della "Scuola di piazza del Popolo" è di Arbasino. Si discuteva al bar Rosati, poi si andava alla galleria "La tartaruga" di Plinio De Martiis. Proprio nella storia di quel luogo ho scritto che la luce, obelisco, la geometria della piazza avevano influenzato la pittura di quei miei amici. Ho scritto che c’era qualcosa di profondamente malinconico che riguardava Roma e i sentimenti di quelle persone».
La scena biografica di Giosetta Fioroni è ricca di personaggi straordinari e indimenticabili. L’arrivo a Roma nel 1958 di Cy Twombly, anche lui amico perenne. Una permanenza a Parigi dov’è facile diventare amici di Joan Mitchell o bere whisky fino alle quattro del mattino al fianco di Samuel Beckett (senza calzini, nonostante il gelido inverno parigino) al Petit Dome di Montparnasse. O conoscere Tristan Tzara e Pierre Klossowsky, il fratello di Balthus. Sono gli anni in cui la poetica di Giosetta Fioroni si dipana, prende forma e soprattutto assume un senso. Adesso, girandosi indietro, come sintetizzerebbe quel senso? Giosetta Fioroni esita per un attimo, gli occhiali leggermente scuri non riescono a nascondere uno sguardo che cerca il cielo dalle finestre: «Io ho scelto la via del sentimento. Forse lo possono testimoniare la lunga serie di donne, di figure femminili. C’è la scelta di raccontare non il femminismo ma la partecipazione al ruolo importante che le donne avrebbero poi avuto nel mondo contemporaneo».
Dopo quegli anni iniziali c’è un’intera biografia da scrivere. Gremita di produzioni e di esposizioni: personali e collettive, il Castello di Rivoli e la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma e molte apparizioni nei musei del mondo. Nella più recente stagione c’è l’avventura dei libri d’artista, in serie limitatissima, molto spesso fatti a mano uno per uno, al fianco del poeta Zanzotto o di Guido Ceronetti e con l’editore-artigiano Maurizio Corraini di Mantova: «Su Guido ricordo la frase che Goffredo mi disse annunciandomi che me lo avrebbe fatto conoscere: "Adesso andiamo a trovare una persona impegnata in uno spettacolo di marionette che sarà importante per la tua vita". Mi conosceva troppo bene per poter sbagliare. Infatti, esattamente come avvenne da giovane imbattendomi in Scialoja, la conoscenza di Ceronetti ha cambiato una parte della mia vita».
E adesso, qualche sogno nel cassetto? «Riuscire a concludere quattro quadri di grandi dimensioni, anche se le energie non sono più le stesse di prima. Una tela sulla guerra, una sulla musica, la terza sulla violenza dello stupro e la quarta sull’idea di bellezza». Giosetta Fioroni sorride, il sole romano è ormai quasi primaverile. E illumina in un attimo, nel volto di oggi, la Giosetta fotografata a nove anni dal papà nel suo studio di scultura.
Paolo Conti