Gianna Fregonara, Corriere della Sera 24/01/2010 Lettere al Corriere, Corriere della Sera 26/01/2010, 24 gennaio 2010
2 articoli. DAL BALCONE DI MUSSOLINI AL BIANCO SORRISO DI BELEN - «Lo sai che qui mille anni fa veniva tanta gente ad ascoltare degli annunci importanti, da quel balcone lì»
2 articoli. DAL BALCONE DI MUSSOLINI AL BIANCO SORRISO DI BELEN - «Lo sai che qui mille anni fa veniva tanta gente ad ascoltare degli annunci importanti, da quel balcone lì». «Ah sì? Era un po’ come la televisione». Colloquio sull’autobus 85 all’ingresso in Piazza Venezia da via dei Fori Imperiali, il 15 dicembre 2009 alle 14.30, tra due bambini delle elementari, certamente un po’ confusi sul conto dei secoli del passato, ma non sull’evoluzione dei sistemi di comunicazione di massa. Uno scambio di battute che riesce a giustificare con una sintesi estrema e una logica stringente la scomparsa di uno dei simboli tristemente noti della storia contemporanea: il balcone di mussoliniana memoria, dal quale il Duce dichiarò guerra a Francia e Inghilterra il 10 giugno 1940. Da qualche settimana’ complice la copertura dell’esterno di Palazzo Venezia’ è diventato lo sfondo per la pubblicità. E, anche nella sua versione stampata sui teloni di protezione della facciata originale, sparisce nel confronto con i giganteschi cartelloni multicolor e il bianchissimo sorriso di Belen Rodriguez. Strano destino di questo palazzo’ Palazzo di Venezia, come recita il nome ufficiale – che pur essendo qui da sei secoli, capolavoro dell’architettura rinascimentale civile a Roma, è stato destinato ad essere una quinta teatrale. Un balcone per sogni di gloria mal riposti nel Ventennio, uno schermo per incorniciare la fidanzata di Fabrizio Corona, oggi che è impacchettato per il restauro, un ingombro visivo per i turisti abbagliati dai marmi dell’Altare della Patria. Ma anche un riferimento sicuro per appuntamenti tra adolescenti: «Ci vediamo alle cinque sotto il balcone». Una location perfetta (secondo gli standard propagandistico-televisivi locali) per un bagnetto di folla (di curiosi) per Muammar Gheddafi che nella sua prima visita ufficiale in Italia la scorsa estate ha inscenato proprio sotto il noto balcone una parata in limousine: ha imposto all’autista di rallentare, si è fatto aprire il tettuccio, è sbucato tutto vestito di bianco e ha preso a sbracciarsi verso i turisti. Che un po’ stupiti, un po’ incuriositi, hanno tirato fuori la macchina fotografica: che altro avrebbero potuto fare? Nei secoli l’hanno ingrandito, tagliato, addirittura ne hanno spostata un’intera ala (il Viridarium di Paolo II) per cambiare volto alla piazza, ne han rifatto le finestre, sventrato un pezzo per cambiare il percorso delle strade. Anche il famoso balcone, l’unico sulla facciata che dà sulla piazza, non è altro che la modifica di una delle finestre quattrocentesche volute per il suo palazzo papale dal cardinale Pietro Barbo (futuro Paolo II): a stabilire la trasformazione di una finestra in balcone fu la diplomazia veneziana nel Settecento, che allora alloggiava qui. Eppure Palazzo Venezia avrebbe una «personalità» storico-artistica di tutto rispetto, anzi addirittura invidiabile. Metà castello medievale, metà residenza rinascimentale, ha una loggia doppia, una chiesa incorporata (San Marco, che dà sull’omonima piazza, tra il Vittoriano e via delle Botteghe Oscure), una cappella, un’infilata di corti e un giardino segreto. Solo da qualche anno, da quando il museo Nazionale di Palazzo Venezia ha riaperto le porte e ospita mostre di prima importanza, anche l’interno dell’edificio, un misto di stili e ristrutturazioni che mettono insieme affreschi della scuola del Mantegna, putti, centauri, un ritratto del Vasari, e i fasci littori lasciati dall’ultimo inquilino istituzionale, è diventato una meta culturale. L’anno scorso queste sale hanno avuto anche un’importanza politica: l’esposizione «Il Potere e la Grazia» passerà anche tra i luoghi simbolo della storia nazionale del 2009, perché durante l’inaugurazione si sono formalmente riappacificati Silvio Berlusconi e, per il Vaticano, il cardinal Bertone, dopo l’estate delle veline e l’autunno dello scandalo all’«Avvenire». Le mostre hanno consentito di riaprire al pubblico le stanze buie e austere del Gran Consiglio’ si chiamava in realtà sala del Pappagallo perché il Papa vi custodiva creature esotiche come i pappagalli, un capriccio da signori come si ricava dai libri contabili cinquecenteschi’ e quella del Mappamondo (quella per intenderci della «luce sempre accesa»), l’ufficio di Mussolini, che vi stabilì la sede del governo nel 1929, e che dopo l’arresto il 25 luglio 1943 resta in mano al capo dei commessi, Quinto Navarra, mirabilmente intervistato anni dopo da Leo Longanesi e Indro Montanelli. Davanti alle finestre del Palazzo si sono svolte corse dei tori, è passato il primo omnibus di Roma e si è sperimentata l’illuminazione a gas. Dentro han vissuto papi e ambasciatori, ci soggiornò a lungo Antonio Canova, Napoleone ci fissò la sede dell’amministrazione francese e, in periodo fascista, ha fatto anticamera il mondo. Mentre ogni pomeriggio, alle quindici e trenta, sul retro bussava (portando un mazzetto di fiori per la scrivania nella sala del Mappamondo), Claretta Petacci, condannandosi a lunghe attese prima di poter incontrare brevemente l’amante, sempre che non le avesse preferito qualche altra visita lampo. Al primo piano hanno suonato il quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart e Gioacchino Rossini vi ha diretto il suo Stabat Mater (1842). Nella sala accanto, quasi cent’anni dopo, si incontrarono il Duce e un giovanissimo Indro Montanelli che così racconta l’episodio: «Un giorno fui convocato a Palazzo Venezia, era il 1932 e avevo 23 anni, perché il duce voleva vedermi. Ero emozionatissimo, entrai e mi misi sull’attenti, e il duce che faceva finta di scrivere mi lasciò lì per un quarto d’ora e alla fine mi disse: "Ho letto il vostro articolo sul razzismo (avevo scritto un articolo contro il razzismo). Bravo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi (non si era accorto che ero biondo), continuate così. Sei anni dopo fece le leggi razziali. Perché questo era Mussolini, diceva una cosa e ne faceva un’altra, secondo il vento del momento. Non creava il vento, vi si accodava da buon italiano». per un tabù non detto che nel dopoguerra le manifestazioni non arrivano mai a Piazza Venezia. Omeglio, se ci arrivano il palco è precauzionalmente sistemato su via dei Fori imperiali, un po’ più in là. I sit-in (precari, curdi, radicali, sfrattati) si svolgono nella più intima piazza San Marco, sul lato verso il Vittoriano, visibili dal Campidoglio. E di nuovo a infrangere questo accordo non scritto sono stati i centauri invitati in piazza lo scorso luglio per un raduno di scooter a scopo pubblicitario, con sgasata finale. Quel giorno sull’angolo di Palazzo Venezia, verso via del Plebiscito, non sostavano (come ormai sempre più spesso succede) i blindati dei carabinieri per proteggere l’indirizzo che ha surclassato i ricordi storico-politici della piazza: Palazzo Grazioli, meta sempre più spesso di turisti con macchina fotografica compatta. Oltre a difendere il premier, hanno presidiato per mesi l’accesso all’associazione Italia-Cina, che ha sede in piazza Grazioli, per tutto il periodo della polemica Cina-Tibet prima delle Olimpiadi di Pechino. Alessandra Mussolini avrebbe voluto cambiare nome a Piazza Venezia, trasformandola in «Piazza Unità d’Italia» e cancellando un altro piccolo pezzo di identità del Palazzo, ma non se ne fatto nulla. E in fondo anche lo spostamento della fermata dell’autobus sul lato del Palazzo, per motivi di sicurezza, priverà molti romani di un dubbio e di una curiosità culturale: chissà in quanti aspettando il 30 o il 64 si saranno chiesti, ma come sarà lì dentro? Gianna Fregonara Corriere della Sera 24/01/2010 MONTANELLI A PALAZZO VENEZIA - Nel suo pur interessante articolo sulla storia di Palazzo Venezia (Corriere, 24 gennaio), Gianna Fregonara riporta tra virgolette alcune affermazioni di Indro Montanelli, purtroppo inesatte, sul suo unico incontro con Mussolini. Infatti: 1) l’incontro’ di un quarto d’ora – avvenne non nel 1932, bensì il 5 luglio 1934 (come risulta dall’elenco delle Udienze del duce, Archivio centrale dello Stato); 2) Montanelli non era da solo, bensì con una dozzina di amici della rivista L’Universale di Berto Ricci, alla quale lui collaborava dalla fine del ’33; 3) pare effettivamente che il duce si pronunciasse contro il razzismo nazista (così ricorda Romano Bilenchi in «Amici»), ma riferendosi alla linea dell’Universale, non a uno specifico articolo montanelliano antirazzista, che non risulta sia mai stato scritto. Sandro Gerbi, Milano Lettere al Corriere, 26/01/2010