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 2010  gennaio 24 Domenica calendario

LE VIRTU’ PERDUTE

Una volta, per dirla con Lucio Dalla, nel centro di Bologna «non si perdeva neanche un bambino». Oggi il Pd ci sta perdendo un sindaco e la residua fetta delle sue illusioni. La storiaccia di Flavio Delbono e della sua segretaria assai difficilmente finirà sui libri che narreranno questo scorcio, certo non esaltante, della politica italiana ma guai a considerarlo un episodio minore.
Da pagina 1 E’ la buccia di banana su cui scivola un progetto politico-culturale ambizioso, quello che voleva rifondare l’Italia a partire da Bologna e dalle sue virtù.
La capacità amministrativa delle classi dirigenti bolognesi è iscritta tra i miti del Paese. I piani regolatori dei Cervellati e dei Campos Venuti erano considerati da tutti - fans del Pci o suoi avversari - come il meglio dell’urbanistica europea, il sistema di servizi sociali implementato dai sindaci rossi come Dozza, Fanti e Zangheri faceva rodere di invidia il resto degli italiani (compresi quelli che votavano Dc). La città delle Due Torri era il biglietto da visita dell’ italo-comunismo, una variante pragmatica del marxismo dove tutti trovavano posto (imprenditori, ceti medi ed operai) e tutti sorridevano contenti di viver lì. In fondo era un grande spot ante-Publitalia.
Niente dura per sempre e un bel giorno del giugno ’99 un macellaio di nome Giorgio Guazzaloca mise fine a questa grande storia. Tolse Bologna dall’empireo, la riportò in provincia e convinse gli elettori felsinei che bisognava cambiare registro. Parlare la lingua dei muratori e non solo quella dei professori. Ma non è detto che commercianti e artigiani al potere siano meglio dei funzionari di partito e così Guazzaloca ha ballato per una sola estate. Alle elezioni successive la sinistra rimontò. Ingaggiò un extra-emiliano, Sergio Cofferati e rimise almeno idealmente la bandiera rossa sul pennone di palazzo d’Accursio. L’ex leader della Cgil, sarà stata pure come dicono in città «la persona giusta nel posto sbagliato» ma di sicuro non è riuscito a far ripartire un nuovo ciclo di successi amministrativi. Troppe cose erano cambiate dal tempo dei mitici sindaci comunisti e, come ha scritto il sociologo Fausto Anderlini, «il tessuto fiduciario della cittadinanza aveva subito un logoramento». Bologna non era più una città dolce e in testa all’agenda del sindaco erano passate parole come sgombero, baraccopoli e clandestini.
Poi Cofferati se n’è andato e Bologna ha applaudito il suo primo sindaco di rito prodiano, Flavio Delbono. Una staffetta dentro il centro-sinistra che ha provocato qualche mal di pancia ma anche la speranza che l’ulivismo riscattasse Bologna. Nessuno avrebbe mai pensato che il sindaco inciampasse proprio sull’etica privata e pubblica, una materia assai cara ai suoi maestri, i Prodi e i Parisi. Laddove la Dotta non aveva difficoltà a produrre personale amministrativo di qualità (Pierluigi Bersani è stato un ottimo presidente della Regione), oggi invece è ridotta al lumicino. Sarà un caso però il Pd alle prossime Regionali ricandida il presidente Errani, «al suo terzo irrituale mandato», come ha velenosamente scritto sul Fatto di ieri un altro professore petroniano, Gianfranco Pasquino.
In città gli scettici dicono che Bologna non sia ormai capace di inventare più niente. Si è cancellata dall’Europa e si è relegata in provincia. L’ultimo prodotto doc è stato l’ulivismo che però nella sua nuova versione ha sfornato proprio i Delbono. Vuol dire che dietro Prodi, e la sua pressoché intatta popolarità cittadina, c’è poco e niente. Il prodismo emergente aveva dietro di sé tre potentissimi think tank: Nomisma, Prometeia e Il Mulino. A un certo punto, inizio degli anni ’90, era sembrato che la città potesse togliere aMilano lo scettro dell’egemonia culturale e della capacità di produrre classe dirigente. Riforma del sistema politico, scenari macroeconomici, futuro dell’industria, tutte le ricette più avanzate venivano dai pensatoi sotto le Due Torri. Oggi la mappa dei think tank che contano in Italia è cambiata profondamente, nessuno svetta, molti sgomitano, ma Bologna conta molto, molto meno.
La tendenza è a descriverla come una città demograficamente invecchiata e quindi tendente alla conservazione. Fatica persino a farsi riconoscere capitale della sua regione. L’alta velocità l’ha ulteriormente avvicinata a Milano ma le sue classi dirigenti non riescono a sentirsi nordiste. Sono ancora prigioniere di quella vecchia idea di un’Italia di mezzo (Emilia, Toscana e Umbria), rossa e coesa. Altre oggi sono le narrazioni territoriali forti. Da Varese è nata la migliore macchina politica degli ultimi anni, il Nord-est ha saputo imporre un brand che prima nemmeno esisteva. Dove ci sono società giovani e mobili, alla fine si produce anche un nuovo ceto di amministratori. Bologna no, la sua Fiera ha perso un anno in guerre intestine per la governance (una volta si diceva "per le poltrone"). La sua università non ha un campus degno di questo nome e i 100 mila studenti servono per lo più a sorreggere un’economia parallela fatta di affittacamere e baretti. E le tradizionali organizzazioni di massa, le Coop, le Cna e le Confesercenti, che rifornivano di quadri i partiti della sinistra, oggi se ne guardano bene. E nel segreto dell’urna sanno solo loro cosa votano veramente. Per ricominciare, Bologna forse dovrebbe partire da una provocazione che il sindaco Renato Zangheri pose una volta ai professori del Mulino: «Sapete più cose sui puritani del Massachusetts che sulle mondine emiliane».
Dario Di Vico