Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  gennaio 26 Martedì calendario

ALI IL CHIMICO STATO IMPICCATO

«Li ammazzo tutti con le armi chimiche! Chi avrà qualche cosa da ridire? La comunità internazionale? Che vadano a farsi fottere, la comunità internazionale e chi le dà retta»: fu con queste parole rivolte ai funzionari del partito Baath che Hassan al Majid, detto Ali il Chimico, cugino e genero di Saddam Hussein, riversò sui curdi nella primavera del 1988 una raffica di bombardamenti con le armi chimiche e il gas nervino. Era la campagna "Anfal" che portò alla morte di 180mila curdi e alla distruzione di 4mila villaggi. Si trattava della "soluzione finale" ideata dal raìs per venire a capo della resistenza al regime.
Alcuni giornalisti raccontarono la storia e furono portati negli ospedali iraniani a visitare i curdi, fuggiti oltre confine, colpiti dalle armi chimiche. Tra questi c’erano i superstiti di Halabja, uno dei villaggi dove il 17 marzo erano state uccise in un colpo solo 5mila persone e altre 10mila erano rimaste sfigurate. I sopravvissuti raccontavano storie che ricordavano l’Olocausto nazista. «Gruppi di prigionieri venivano disposti in fila, fucilati al petto e trascinati in fosse comuni scavate in precedenza, altri prima di essere uccisi erano costretti a sdraiarsi a coppie, pigiati come sardine, accanto a cumuli di cadaveri ancora caldi, altri ancora venivano fucilati nella schiena, sul ciglio della fossa, perché cadessero in avanti e finissero dentro. Le ruspe poi coprivano i cumuli di cadaveri con terra o sabbia»: questa testimonianza, raccolta in un ospedale di Teheran, somigliava ad altre centinaia, allora quasi del tutto ignorate.
Ali il Chimico ebbe ragione a farsi beffe della comunità internazionale: a parte i rapporti di Human Rights Watch e Amnesty International, non ci furono condanne ufficiali, neppure da parte dell’Onu. Baghdad aveva ricevuto prestiti di guerra per 120 miliardi di dollari e armamenti letali sia dall’Occidente che dall’Unione sovietica. Non era quello il momento di condannare l’Iraq che, con l’appoggio finanziario delle monarchie del Golfo, stava sostenendo l’ultimo sforzo bellico contro l’Iran. In agosto fu dichiarato il cessate il fuoco: la guerra degli otto anni aveva causato un milione di morti e sulle stragi dei curdi scese l’oblio. Saddam e Ali il Chimico ebbero così l’opportunità di massacrare altre migliaia di curdi e sciiti nella repressione che seguì nel ’91 la sconfitta in Kuwait. Al-Majid aggiunse poi al suo ruolino un’altra strage di sciiti, centomila, nel ’99.
Questo è l’uomo quattro volte condannato a morte e salito ieri sulla forca in una Baghdad ancora insanguinata: una giustizia inaccettabile per chi è contrario alla pena di morte ma soprattutto tardiva, e forse imprecisa, una sutura che forse rimargina ma non guarisce le ferite irachene.