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 2010  gennaio 24 Domenica calendario

SANGUE BLU E BUSINESS LA PARABOLA DELLA DAVIS

Cos´è la Davis Cup? Fisicamente una coppa di sei chili e centocinquanta grammi d´argento, commissionata da Dwight Filley Davis, studente ad Harvard (Boston) ai gioiellieri Shreve Crump and Lowe, disegnata da Rowland Rose e realizzata dai cesellatori William Morton e Warren Peckman.
Com´è nata? In seguito a un viaggio in California, compiuto dallo stesso Davis in compagnia di Beals Wright, Malcolm Whitman e Holcombe Ward, i campioni della costa atlantica, nell´intento di meglio conoscere, o addirittura affratellare, i club di tennis americani. Da quell´iniziale proposito, in seguito ad una conversazione con il dottor James Dwight, padre della patria tennistica, il giovane Davis trasse l´audacia per immaginare un match con la Gran Bretagna, il paese che gli anglosassoni, ignari delle origini rinascimentali, ritenevano avesse inventato il tennis: soprattutto grazie ad un copyright depositato a Londra dal maggiore Walter Clopton Wingfield nel 1874. In seguito al suggerimento del giovane Davis, James Dwight, allora presidente della Federazione americana, inviò ai parigrado britannici una lettera che ebbi occasione di leggere, nel cottage di Dwight jr: «La Lawn Tennis Association pensa che sia desiderabile, nell´interesse del gioco, organizzare un match tra il Regno Unito e gli Stati Uniti d´America».
Erano talmente compresi dalla loro presunta invenzione, e insieme intrisi del loro complesso di superiorità, i britanni, che impiegarono tre anni per accettare con degnazione l´invito americano. E non inviarono nemmeno al Longwood Tennis Club di Boston i loro migliori giocatori, i primi campioni della storia, i Fratelli Laurie e Reggy Doherty. I presuntuosi furono giustamente puniti, con un netto tre a zero, che avrebbe potuto addirittura tramutarsi in umiliante cinque a zero, non fosse giunto un temporale ad interrompere la terza giornata.
Gli inglesi non affrontarono nemmeno la traversata l´anno seguente, e si sarebbe dovuto attendere la riluttante adesione dei Fratelli Doherty perché portassero la Coppa a Londra, nel 1903. Di lì sarebbe iniziata una storia squisitamente anglosassone, in pratica limitata agli inglesi, agli americani e ad un paese inesistente, denominato Australasia, un team composto dall´australiano sir Norman Brookes e dal neozelandese e grandissimo Tony Wilding, che tennero la Coppa dal 1909 al 1911.
Ad imitazione della Americas Cup di vela, e forse di un suggerimento esoterico rintracciabile ne Il ramo d´oro di Frazer, la struttura della Davis prevedeva che il detentore non partecipasse alle eliminatorie dell´anno seguente, ma attendesse in casa la sfida (challenge) del vincitore di una prima fase, chiamata All Comers.
A rendere la Coppa un tantino meno anglosassone si sarebbero via via inseriti i più ricchi e sportivi tra i paesi europei, e la Germania sarebbe giunta a minacciare gli australiani, in semifinale, proprio alla vigilia della guerra ´15-18. Terminata quella strage, che rapì tra gli altri il grandissimo Wilding, vincitore di ben quattro Wimbledon, giunsero ad affacciarsi molti paesi, tra i quali, sorprendentemente, il Giappone che raggiunse la finale del 1921 contro gli Stati Uniti. Era divenuta di fatto internazionale, la Davis, come ormai la si chiamava succintamente. E finì per uscire dalla gravitazione anglosassone con l´irruzione della Francia, una straordinaria squadra formata dai Quattro Moschettieri, Cochet, Lacoste, Borotra e Brugnon. Capaci, I Moschettieri, di imporsi a Filadelfia, la città natale del grande Big Bill Tilden, considerato sin lì imbattibile. A Parigi, nei sotterranei della Banque Nationale, la Coppa sarebbe rimasta dal ´27 al ´31, sinché un nuovo fenomeno, il professionismo, non fosse giunto a privare, ogni anno, la nazione vincitrice di qualche tennista né nobile né facoltoso, come i campioni d´inizio secolo.
Con un ritardo certo comprensibile a chi si occupi di storia, anche i nostri si erano affacciati alla Coppa, nel 1922. Una squadra composta dal genovese Mino Balbi di Robecco e dal milanese Cesare Colombo venne sorteggiata contro un Giappone privo del grande Satoh, suicidatosi in mare per depressione tennistica. I giapponesi non affrontarono la traversata, e i nostri si ritrovarono in secondo turno contro gli ingiocabili britanni. L´anno successivo vide l´accesso in squadra di uno dei migliori italiani di tutti i tempi: italiano di passaporto, perché il Barone Uberto de Morpurgo, nato a Trieste, si professava cittadino dell´impero austroungarico, e si rivolgeva in francese al suo partner Gaslini. Questa squadra, confortata dall´altro singolarista De Stefani, primo nella storia a servirsi di due diritti, sarebbe giunta a superare due volte l´Australia, e avrebbe addirittura affrontato gli americani nella semifinale di Parigi, dove si disputava il match di accesso al Challenge Round. Fu, quello del 1930, il nostro maggior successo sino al termine di un´altra guerra mondiale, i cui vincitori non ci consentirono di ritornare in campo sino al 1948, addossando ai tennisti le colpe di Mussolini.
Ma, in quegli anni e nei seguenti, una congiuntura tra ex-raccattapalle e signorini impoveriti issò il paese a ruoli di primo piano. Un giovane profugo dalla Tunisia, Nicola Pietrangeli, e un fiumano scacciato da Tito, Orlando Sirola, riuscirono addirittura a battere gli americani, in Australia, e ad accedere alla finale 1960, seguita da un´altra, anch´essa vana contro gli imbattibili aussies, l´anno seguente. I loro nipotini, quattro piccolo borghesi, Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, riuscirono a fare ancor meglio, conquistando ben quattro finali, tutte fuori casa, e la nostra unica vittoria.
Fu, quel successo del 1976 a Santiago, complicatissimo per gli scoraggianti dissidi politici del Paese, ancor prima che per la non eccelsa qualità degli avversari. Il Partito comunista si oppose a lungo alla Dc e ai tennisti, il cui capitano, Pietrangeli, si comportò non meno coraggiosamente del numero uno Panatta, che si dichiarò pronto a liberarsi del passaporto italiano. Ma, alla fine, riuscimmo a partire nonostante lo scoraggiante atteggiamento di balilla rossi capaci di invadere gli uffici federali, o del cantautore Modugno, autore dello slogan «Non si giocano volé contro il boia Pinochet».
Era, in quegli anni, giunto alla presidenza della Federtennis il romano Luigi Orsini, la cui proposta avrebbe mutato la struttura della Davis. Pareva infatti ingiusto, a Orsini e ai suoi sostenitori, che la squadra detentrice dovesse affrontare un solo incontro, e per di più in casa, contro un avversario che aveva dovuto superare quattro altri paesi. La proposta di Orsini venne approvata e, nel 1972, fummo costretti ad assistere all´aspetto più preoccupante della Coppa, un rigurgito di sciovinismo di un pubblico ineducato al tennis, integrato da giudici di linea capaci di ben sedici chiamate dolose nel match della finale tra il rumeno Ion Tiriac e l´americano Stan Smith, da quel giorno ribattezzato San Smith.
Il nuovo formato non si limitò tuttavia all´abolizione del Challenge Round. Dapprima si crearono tre ripartizioni geografiche, America, Europa e Asia, e nel 1981 si procedette all´attuale divisione tra una Serie A di sedici squadre e una B le cui vincitrici si battono con le retrocedende dalla A. Oltre a ciò, una base variamente assortita che ammonta alle attuali centotrenta iscritte.
 contro questo aspetto nazionalistico ed elefantiaco, del tutto opposto alla filosofia del gioco più individuale e internazionale, insieme al golf, che sembra apparentemente diretta l´opposizione di Federer e Nadal, e del loro portavoce Djokovic. Rappresentanti, insieme a Ljubicic, di una Associazione (Atp) troppo a lungo maldiretta da dirigenti sciaguratamente eletti e strapagati dagli stessi tennisti.
Hanno di recente suggerito, i giocatori, che la obsoleta Davis Cup venga sostituita da una sorta di Campionato mondiale biennale, una competizione da svolgersi in un´unica sede, tra trentadue paesi raggruppati in gironi, con i vincitori destinati a scontri diretti dagli ottavi di finale in poi. Simile semplificazione assumerebbe aspetti innovatori con la possibilità di sostituzioni tipo basket, tempi ridotti tra un punto e l´altro, e tie-break accorciato a cinque punti.
Sotto questa nuova pelle giovanile, si celano tuttavia ben altri interessi. Il calendario mondiale, imperniato sulle date in altri tempi accettabili dei quattro Grand Slam (Melbourne, Parigi, Wimbledon, Flushing Meadows), costringe oggi i pur ricchi tennisti ad un minimo di dodici tornei obbligatori, più la finale della Masters per i primi otto. I quattro ipotetici turni di Davis vanno a collocarsi in date disagevoli, prima di Indian Wells (11 marzo), subito dopo Wimbledon (9 luglio), la settimana seguente lo U.S. Open (17 Settembre) e, nell´ultima settimana della stagione subito dopo il Masters (4 Dicembre). Alla indubbia fatica di simili collocazioni, va sommato un probabile mancato guadagno, poiché i compensi sono gestiti dalle Federazioni.
, a mio parere, soprattutto questa la svolta decisiva del problema. Pur avendo perduto il controllo del sindacato giocatori, le Federazioni sono rimaste proprietarie non solo dei quattro più grandi impianti, ma del copyright di Davis. I tennisti spingono per sottrarsi all´obbligo di una gara faticosa e non redditizia. Schierate con loro appaiono le multinazionali produttrici dell´abbigliamento, delle racchette, e di molte implicazioni televisive. Guarda caso, il nuovo direttore Atp, Adam Helfant, era sino a ieri un importante funzionario della Nike. Non si tratta ancora di guerra che, dice il proverbio, è fatta dall´argent, dal denaro. E forse non ci si arriverà, se il bilancio economico pendesse a favore dei tennisti.