Curzio Maltese, Repubblica 24/1/2010, 24 gennaio 2010
VERDONE UN SACCO BELLO
Roma. La casa di Carlo Verdone è dove te l´immagini, sulla salita per il Gianicolo, con un´imperiale vista su Roma, ma non come l´immagini. «Sembra la casa di un critico rock, vero?», anticipa l´ospite. I ricordi di trent´anni di cinema e sessanta di vita, vissuta da prima e sempre nel mondo del cinema, sono sommersi dal magazzino di cimeli pop, chitarre, bacchette (Verdone è un batterista di valore), album in vinile con dediche degli Who e dei Led Zeppelin, poster di Jimi Hendrix. La raccolta completa dei Walker Brothers, il suo culto personale, una meteora negli anni Sessanta, un trio dallo stile londinese, salvo che non erano di Londra, non erano fratelli e non si chiamano Walker. Ma il più sconvolgente di tutti è appeso alla parete davanti all´ingresso: un quadro cupo e potente. Ed è davvero quello. « il primo quadro dipinto da Yoko Ono a quarantotto ore dall´assassinio di John Lennon. Sono le parole di Imagine spezzate da nuvole grigie. Ho smosso mezzo mondo per averlo». Ogni generazione conserva nella memoria il suo tragico fermo immagine. Dov´era, cosa faceva quando hanno ucciso i Kennedy o l´11 settembre. Chi è nato nel 1950 come Carlo Verdone non può dimenticare la notizia della morte di Lennon. Tanto più viste le circostanze. «È stato Sergio Leone a darmela. Ero all´ultimo giorno di montaggio di Bianco, rosso e Verdone. Entrò maestoso come sempre e mi disse: "Mi sa che hai perso un idolo". Rimasi agghiacciato, non so per quanto tempo, a contemplare la fine della mia giovinezza. Poi arrivò Ennio Morricone che voleva festeggiare la fine del film. Mi scattò lui questa foto con Sergio Leone, dove mi sforzo di essere allegro».
È paradossale che il magico 1980 di Carlo Verdone, l´anno dell´esordio travolgente con Un sacco bello, sia celebrato nella sua casa soprattutto da quel triste ricordo. «Eppure è andata così. L´inizio dell´avventura nel cinema coincise con la fine di un´avventura ancora più bella, gli anni Sessanta e Settanta. I più belli della storia d´Italia, di sicuro i miei, di quando ero felice e sconosciuto. Gli anni dell´amicizia, delle gite in Vespa alla spiaggia di Anzio, delle sere al cineclub e delle notti poi volate a parlare di Buñuel o De Sica, Fritz Lang e Dreyer, gli anni degli studi al centro sperimentale, della bella politica. In fondo a un´infanzia trascorsa, grazie a mio padre, in mezzo a personaggi straordinari, da Federico Fellini a Pier Paolo Pasolini, passando per Monicelli, Germi, Lattuada e tanti altri. Quel giorno di dicembre del 1980, mentre tutti volevano festeggiare il successo, io avevo capito che quell´epoca era finita per sempre. Massì, sono un malinconico di natura e si vede anche nei miei film più comici. La verità è che non capivo cosa stava accadendo. Fu tutto troppo veloce. Ero uscito dal centro sperimentale deciso a fare il regista di documentari. Una via di mezzo fra le avanguardie underground di Warhol e Julian Beck e il cinema politico. Per passare il tempo e divertire gli amici, ogni tanto facevo qualche spettacolino comico al teatro Alberichino, roba di quaranta posti, scomodi. Ma un giorno sono arrivati Enzo Trapani e Bruno Voglino, un geniale capostruttura Rai, e così mi sono ritrovato a fare il comico a No Stop. In meno di un anno ero sul set, con Sergio Leone, a girare Un sacco bello. Un sogno, una follia».
Con Un sacco bello nasce una galleria di personaggi che ci accompagnerà per trent´anni. Un cinema umile, intelligente, generoso che ha raccontato l´Italia reale meglio forse di qualunque altro. Da dove prendeva l´ispirazione? «Mi guardavo intorno e imitavo senza forzature. La realtà era già abbastanza caricaturale. Il mammone che ospita la spagnola era un mio amico del cortile. Il viaggio in Polonia per rimorchiare ragazze l´avevo fatto davvero, a Breslavia, in un ostello della gioventù dove gli unici stranieri erano italiani. Perfino la Fiat Dino nera targata Viterbo era la stessa di un playboy da ostello incontrato laggiù. Quanto alla regia, mi ha insegnato tutto Sergio Leone».
Le interviste a Carlo Verdone andrebbero filmate. Uno spettacolo. Si alza, vaga per la stanza, assume la voce e i gesti dei personaggi citati e dopo un po´ sei immerso in una folla. Una delle sue imitazioni formidabili è Sergio Leone. Il primo colloquio fu catastrofico. «Qual è il mio film che ti piace di più?», chiede il maestro. E lui: «Il buono, il brutto e il cattivo». «Sei proprio un burino…».
«Leone interpellò mezzo cinema, dalla Wertmüller a Steno, poi decise: "Lo giri tu". Mi disse di dimenticare quello che avevo imparato al centro sperimentale e di andare ogni giorno a lezione da lui, dalle 10 alle 18. Lo feci per sei mesi. Era durissimo. Mi menò due volte. Uno schiaffo in pieno viso perché non avevo fatto il giro di corsa dell´isolato che mi aveva chiesto per farmi venire l´affanno in una scena. Si era appostato alla finestra per controllare. E poi un calcio violento nel sedere perché avevo rimontato un primo piano secondo lui tagliato male. Ma naturalmente fu anche un maestro formidabile».
Un sacco bello diventa un fenomeno d´incassi e di costume. L´avvio di una nuova stagione della commedia. «Allora non me ne resi conto. Pensavo di aver vinto una lotteria e basta. Non andai mai a vederlo in sala, mi vergognavo. Non capivo nemmeno perché la gente ridesse tanto. I grandi sì. Tullio Kezich, Ermanno Olmi, Oreste Del Buono. Beniamino Placido, per esempio, disse: "Ma ti rendi conto che hai fatto una rivoluzione?"». A distanza di tanti anni, se ne rende conto? «Era una miscela giusta, fra qualcosa di riconoscibile e di nuovo. Da una parte il carattere perenne italiano, quello che meglio di tutti ha descritto Ennio Flaiano e che era al centro della commedia all´italiana. Dall´altra i mutamenti antropologici dell´italiano medio al principio degli Ottanta».
Il trionfo di Un sacco bello è anche un boomerang. Spiana la strada al successo di una nuova generazione della commedia, da Massimo Troisi a Roberto Benigni a Francesco Nuti. E Verdone finisce un po´ nell´ombra. «Bianco, rosso e Verdone non incassò altrettanto. Se ne andarono tutti, Sergio Leone, la Medusa, rimasi solo. Per un paio di mesi pensai seriamente di rispolverare la laurea e mettermi a fare documentari. Ma un giorno mi chiamò Mario Cecchi Gori. S´era innamorato di un personaggio del film, l´immigrato che torna in Italia per il voto. Ne uscì Borotalco, il film che ha avuto più riconoscimenti, cinque David, le lodi della critica. Ma per me, soprattutto, l´apprezzamento di mio padre, Mario. Ero passato da virtuosista ad autore, per raccontare un´Italia che stava cambiando, sempre più prigioniera del mito dell´immagine».
Torniamo un po´ al rapporto con la sua generazione, Troisi, Benigni, Nanni Moretti. «Stima, ammirazione, affetto e anche, perché no, un pizzico d´invidia. A me la critica non mi ha mai preso tanto sul serio. Forse c´entra anche la politica. Io non andavo alle feste dell´Unità, non ero considerato uno impegnato, un riferimento. Insomma, a un mio film la stelletta Repubblica non l´ha mai data». Eppure è Verdone a inaugurare la comicità "di sinistra", un modo di guardare con sarcasmo un po´ moralista e non con compiacimento ai vizi nazionali. L´erede eversore di Alberto Sordi. «Sordi l´ho conosciuto proprio nel momento più difficile, quando mi propose di girare In viaggio con papà. Mi considerava davvero un figlioccio e mi sequestrava per giorni, raccontandomi tutta la sua incredibile vita. Un genio, si capisce. stato rivoluzionario quando menava le vecchiette e faceva il compagnuccio della parrocchietta. Ma anche un gran reazionario. Un giorno Marcello Veneziani scrisse che era stato il peggior educatore degli italiani. "Ma chi è ´sto comunistaccio?" urlò lui. Quando gli spiegai che veniva dall´Msi, ci rimase malissimo. Anche con lui sbagliai la domanda sul film migliore. Per me era I vitelloni. Sordi protestava che Fellini era un falso mito, un grande imbroglione».
Ora Verdone si alza dalla poltrona, dov´era Sordi, e diventa Fellini. «Prima di capire chi fosse, da bambino Fellini era lo zio Federico, il più formidabile narratore di storie di provincia che abbia mai conosciuto». Quanto ha contato quell´infanzia passata all´ombra dei grandi, tutti amici di quella magnifica figura intellettuale che è stata Mario Verdone? « quello che più manca nell´Italia di oggi. Grandi figure di artisti, sostenuti da una forte visione etica. Perché è l´etica, l´ho imparato da loro, che ti fa guardare avanti. Il berlusconismo c´è già tutto in Ginger e Fred di Fellini, scritto venticinque anni fa. L´Italia televisiva degli anni Ottanta era stata prevista e paventata da Pasolini. Era importante per me, perché il lavoro del comico ha una natura cinica, ti spinge a ridere di qualcosa di cui dovresti vergognarti. I miei amici francesi non capiscono il culto di Alberto Sordi: come fate, dicono, ad amare uno che vi rappresenta come mostri?».
Gli chiedo quale di questi decenni è stato il più difficile da raccontare. «Gli Ottanta sono stati la vera svolta, la fine dell´utopia. Borotalco e Compagni di scuola sono i film dove ho cercato di raccontare un´Italia di bugie, cinismo e solitudine. A un tempo edonista e lugubre. Come la politica che ha espresso, nella miseria del rampantismo. In Compagni di scuola c´è per la prima volta un politico, Ghini, che sniffa cocaina in bagno. Ma la figura più patetica e significativa è quella di Christian De Sica, il cantante senza talento e senza successo che supplica una raccomandazione o almeno un prestito. Gli anni Novanta sono quelli del grande imbroglio, degli hedge found. Dei mitomani che diventano leader, come il Gallo Cedrone, che vuole trasformare Roma in una Los Angeles con i lungotevere a sei corsie. Anni fragili, dove tutti vanno in analisi. Questi sono gli anni della resa finale all´assurdo. Ma anche, mi piace pensarlo, della fine del tunnel. Il punto più basso l´abbiamo toccato e non si può che risalire. Sta tornando, in maniera magari caotica, la voglia di partecipare. Quando vedo mio figlio con gli amici a discutere di futuro, quando giro l´Italia per presentare un film e incrocio tante storie straordinarie, dopo tanti anni mi torna un po´ di ottimismo».