Alberto Papuzzi, Tuttolibri - La Stampa 23/1/2010, pagina XI, 23 gennaio 2010
ALLE 23 SPENGO I LUMI: E’ LORA DI NERO WOLFE
Il primo giallo lo lesse a dodici anni e fu subito amore a prima vista. Era del grande Rex Stout, con l’inarrivabile Nero Wolfe. Da allora, in una vita che tocca quest’anno le 80 primavere, di gialli, thriller, polizieschi, misteries, ne ha letti a migliaia. E tuttora ne divora. A questo punto è lecito lo stupore quando si scopre che questo avido lettore di trame intrecciate con la suspense, è Pietro Rossi, un’autorità del pensiero filosofico italiano, autore di opere che hanno scandito i percorsi della nostra filosofia, condirettore con il collega Carlo A. Viano di una ciclopica Storia della filosofia da Laterza in cinque volumi (edita fra il 1993 e il 1999), professore emerito all’Università di Torino.
Di recente ha pubblicato Avventure e disavventure della filosofia (il Mulino), raccolta di quindici saggi, apparsi in sedi varie, o testi di relazioni a convegni e conferenze. Sono organizzati in tre parti, cui corrispondono altrettanti nuclei tematici: il dibattito sullo storicismo, il nuovo illuminismo e il profetismo ideologico. Tre fasi aggregate attorno a personaggi autorevoli come Chabod e Cantimori, quindi Abbagnano e Bobbio, infine Pareyson e Vattimo. E’ una mappa della geografia filosofica italiana ma anche uno sguardo sul ruolo dei filosofi. Come sempre, il Diario di lettura ama indagare i rapporti coi libri di natura personale, e da qui parte, un po’ a rovescio, questa intervista.
Professor Rossi, come si diventa filosofi? Come lo è diventato lei?
«Bah! Tutto è talmente causale. Io sono convinto che la storia è dominata dal caso. Quando ero molto ragazzo, nei tristi tempi del cosiddetto sfollamento, venni a contatto con una figura canavesana che aveva stretti rapporti con il filosofo Piero Martinetti, così sentii parlare di lui e di questioni filosofiche quando avevo fra i 12 e i 14 anni; poco più che bambino respiravo già un’aria un poco filosofica, tanto più che a quegli anni risale anche quello che oggi i preti chiamerebbero il "distacco dalla fede". Quindi sono diventato laico molto precocemente. Poi ho avuto due bravi professori di filosofia al Liceo Cavour, che mi hanno incoraggiato. Ma all’università ero molto lacerato fra interessi filosofici e interessi storiografici, perché insegnavano due storici di vaglia come Giorgio Falco e Walter Maturi, finché non incontrai Abbagnano che mi disse: "Vuoi laurearti in filosofia ma hai interessi storici? Va bene, perché allora non studi lo storicismo tedesco?". Questo fu il consiglio che ho seguito».
Il suo autore di formazione?
«Forse Max Weber, perché mi pare sia stato il più interessante tentativo di collegare richiami alla storia e scienze sociali».
Fra Croce e Gentile chi butta dalla proverbiale torre?
«Oggi è una disputa di cui non sappiamo che fare».
Cambio la domanda: il vero filosofo italiano è stato più Gentile o più Croce?
«Se prendiamo la filosofia in senso autarchico, direi che salvo Gentile: ha avuto un’idea sola e ci ha campato per l’intera vita. Invece Croce è stato maestro di cultura in senso generale, e come tale ha inciso profondamente. E’ diventato negli Anni Trenta anche maestro di politica. E’ andato al di là del campo filosofico. Però a Gentile riconosco il grande merito di aver fatto l’Enciclopedia Treccani».
E le sue letture non filosofiche, quali sono? I suoi libri de chevet? Le letture per diletto?
«Fra i testi di studio non filosofici il mio numero uno è probabilmente Il rapporto sui costumi di Voltaire. Fra i classici fin da ragazzo prediligo l’Orlando furioso. Leggo quasi tutte le sere, dalle 11 in poi, evitando scrupolosamente i romanzi italiani contemporanei. Infine devo confessare la passione per i gialli: Rex Stout, Ellery Queen, Van Dine. Ne ho letti a migliaia».
Professor Rossi, delle tre fasi in cui lei divide le avventure e disavventure della filosofia italiana - storicismo, neo illuminismo e profetismo - quale ha avuto più successo?
«Certamente lo storicismo nella filosofia italiana della prima metà del secolo scorso ha avuto una parte rilevante. Uno storicismo di tipo idealistico che si rivolgeva in modo precipuo se non esclusivo al pensiero di Benedetto Croce e con la morte di Croce si è concluso. Un fenomeno europeo. Il nuovo illuminismo è stato invece un tipico fenomeno italiano del secondo dopoguerra, legato soprattutto ai due nomi di Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio, ma anche a due periodi ben definiti. Il manifesto della corrente appare nel 1948, ma come impostazione filosofica il movimento è già in crisi alla fine degli Anni Cinquanta. Ognuno dei maggiori esponenti prende strade diverse. Perché entra in crisi il nuovo illuminismo? Perché nella cultura filosofica italiana si affermavano posizioni di carattere più ideologico, strettamente legate all’affermarsi da un lato del Partito comunista dall’altro della democrazia cristiana. Si affermano dunque delle filosofie ideologizzate: il marxismo e lo spiritualismo cattolico, con un peso culturale differente, in proporzione inversa al successo politico. Negli Anni 60 e 70 i partiti di sinistra sono in minoranza ma la cultura di tipo marxistico si va affermando con la pubblicazione e la lettura dei Quaderni di Gramsci e alla fine degli Anni Sessanta con l’importazione massiccia di autori che vanno da Lukacs a Marcuse. Invece il pensiero cattolico, che è legato organicamente alla Dc, non dà luogo a forme di pensiero altrettanto originali».
E Augusto Del Noce?
«Viene dopo. E’ in realtà un personaggio marginale, che conosce un successo abbastanza tardivo quando compare anche lui sulla scena politica. Alla fine degli Anni Quaranta aveva tentato una conciliazione fra marxismo e tomismo. Comunque è figura largamente sopravvalutata».
Come s’innestano su questo tronco personaggi come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari?
«Figlio di Pareyson, Vattimo si rifà a Heidegger e attraverso lui arriva a Nietzsche. Ha avuto varie avventure, ma il riferimento a Nietzsche, all’ultimo Nietzsche è il suo punto fermo. Non Heidegger, non Gadamer ma Nietzsche è il suo vero filosofo. Cacciari è difficile da sistemare, non è una figura coerente nel suo pensiero. Comincia con problemi di natura vagamente epistemologia, pasticciando tra epistemologia e ancora una volta Nietzsche. Poi scopre la politica e non sarà un cattivo politico, ma è difficile trovare coerenza tra la sua filosofia, che è una sorta di misticismo profetico, e l’impegno politico».
Quanto ha pesato sulla cultura contemporanea, anche italiana, la Scuola di Francoforte?
«Molto. Possedeva originalità teorica: mentre il marxismo criticava la società capitalistica, con l’idea utopistica di una società senza classi, la critica dei francofortesi, specie Marcuse, con L’uomo a una dimensione, si dirigeva alla società industriale indipendentemente dal regime politico che poteva assumere».
I nouveaux philosophes?
«No. Sono un fenomeno di passaggio che incide poco».
Norberto Bobbio?
«Ha tre momenti importanti. Il dibattito su politica e cultura coincide con il Bobbio che importa il positivismo giuridico, in particolare Kelsen, infine la critica al marxismo e il dialogo alla sinistra negli Anni Ottanta».
A 80 anni vuole provare a fare un bilancio?
«No, per carità. Lasciamolo fare agli altri. Magari in sede di necrologio. Il tempo dei bilanci è quello dei necrologi».
Alberto Papuzzi