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 2010  gennaio 25 Lunedì calendario

ENERGIA IN MOVIMENTO. PER VOCEARANCIO

Dell’energia consumata nel mondo, il 35% viene dal petrolio, il 21% dal gas naturale, il 25% dal carbone, il 6% dalle centrali idroelettriche, il 5% da quelle nucleari e l’8% da altre fonti (comprese quelle rinnovabili). Ogni paese può costruirsi le sue centrali nucleari e, per quanto consentito dalla sua conformazione geografica e dalle sue caratteristiche meteorologiche, anche quelle idroelettriche, eoliche e solari. Ma per il resto, e il resto è l’81% della generazione energetica mondiale, bisogna avere le materie prime a disposizione.
Chi non ha risorse energetiche deve allora procurarsele. Il caso ha voluto che la maggior parte del petrolio e del gas del pianeta fossero nelle aree meno sviluppate dal punto di vista industriale (cioè Medio Oriente, Russia, parte dell’Africa e dell’America Latina) mentre le nazioni più avanzate sono povere di materie prime energetiche (tranne rare eccezioni come gli Stati Uniti, che però non riescono a diventare autonomi dal punto di vista energetico). per questo che il trasporto dell’energia da una regione all’altra del mondo è una questione decisiva.
Ci sono tre modi per trasportare gas e petrolio. Il più efficiente è quello di costruire lunghe condotte che pompano la materia prima da un’area all’altra del pianeta. Il problema degli oleodotti e dei gasdotti è che costruirli costa molto e che queste condotte vincolano le rotte della materia prima. Un’altra soluzione possibile è quella di trasportare la materia prima via mare. Questa delle navi è una soluzione meno conveniente dal punto di vista economico, ma in grado di garantire più flessibilità al traffico di gas e petrolio. Un altro limite del trasporto via mare sono i rischi ambientali che ciò comporta e le insidie che la nave incontra lungo la sua rotta. L’ultimo modo è il trasporto via terra, con autocisterne, utilizzato solo per brevi spostamenti.
Ogni giorno nel mondo vengono scambiati 55 milioni di barili di petrolio. Di questi 40 si spostano via mare e 15 attraverso gli oleodotti.
L’oleodotto più lungo del mondo è l’Oleodotto dell’Amicizia (in russo Nefteprovod Družba). Costruito all’inizio degli anni ”60 con l’obiettivo di rifornire di petrolio le nazioni amiche dell’Unione Sovietica, questa condotta parte da Al’met’evsk, nella regione del Tatarstan, dove raccoglie il greggio della Siberia, degli Urali e del mar Caspio. In Bielorussia si divide in due tronconi, uno diretto verso la Germania e l’altro verso l’Ucraina. Lungo 4.000 chilometri, porta in Europa circa 1,4 milioni di barili di petrolio al giorno, e Mosca progetta di allargarne la portata.
Il secondo oleodotto più lungo del mondo è il Baku-Tbilisi-Ceyhan, che prende il nome delle tre grandi città che attraversa: la prima è in Azerbaijan, la seconda in Georgia, la terza in Turchia. Lungo 1.776 e costruito nel 2006, il BTC raccoglie il petrolio dal Mar Caspio per portarlo nel bacino del Mediteranneo. Il greggio attraversa la condotta a 7,2 chilometri all’ora. In pratica impiega più di dieci giorni a raggiungere Ceyhan da Baku. Costruirlo è costato 3,6 miliardi di dollari, messi a disposizione dal consorzio di aizende che gestisce l’impianto: i soci principali sono British Petroleum (30,1%) e State Oil of Azerbaijan (25%). L’italiana Eni ha una quota del 2,5%.
Il grosso del commercio petrolifero, però, si muove sulle petroliere. La Cia ogni anno fa il conto delle petroliere in giro per il pianeta. Gli ultimi dati, quelli del 2007, parlano di una flotta mondiale di petroliere composta di 4.295 navi, con una capacità complessiva di 358 milioni di tonnellate di carico (ci starebbero oltre 2 miliardi di barili di petrolio). L’84% delle petroliere appartengono a compagnie private che trasportano il greggio per conto delle compagnie o gliele affittano direttamente. L’età media della flotta è di 12 anni. Il 68% ha il doppio scafo, richiesto, ad esempio in Europa, per contenere i possibili danni ambientali derivati dagli incidenti. Di queste 528 battono bandiera panamense, 464 liberiana, 355 di Singapore, 252 cinesi, 250 russe, 234 delle Isole Marshall e 209 della Bahamas.
Ci sono 6 classi di petroliere, dalle più piccole General Purpose tanker (capacità sotto le 25mila tonnellate e prezzi attorno ai 43 milioni di dollari) alle enormi Ultra Large Crude Carrier, in grado di caricare anche 550mila tonnellate e con prezzi sui 120 milioni di dollari. La più grande petroliera della storia è la norvegese Knock Nevis, soprannominata ”Happy Giant”, ”Jahre Davis” o ”Seawise Giant. lunga 458 metri, larga 69 metri e capace di portare 564mila tonnellate. Bombardata dagli iracheni durante la guerra con l’Iran nel 1988 è stata rimessa a posto ed è tutt’ora in esercizio. A pieno carico non è in grado di attraversare gli stretti di Panama o di Suez, perché scende di 24 metri sotto il livello del mare. Batte bandiera di Singapore e ci lavorano 40 uomini.
Trasportare petrolio con le navi ha un costo abbastanza ridotto: 2-3 centesimi di dollaro al gallone.
I punto chiave di passaggio delle petroliere è lo Stretto di Hormuz (tra il golfo di Oman e il golfo persico) dove passano 16 milioni di barili al giorno. Poi c’è lo stretto di Malacca, tra la Malesia e l’isola di Sumatra, con 15 milioni di barili giornalieri. Importanti anche il Canale di Suez (4,5 milioni di barili), quello di Bab el-Mandab (tra il mar Rosso e il Glfo di Aden, 3,3 milioni di barili), i Dardanelli (in Turchia, 2,4 milioni), Panama (nell’America Latina, 500mila barili).
Le petroliere rischiano sempre di essere attaccate dai pirati. Nel 2009, secondo la Camera di Commercio internazionale (la Icc) gli attacchi di pirati sono stati in tutto 400. I pirati hanno abbordato 153 navi, ne hanno sequestrate 49, hanno attaccato senza risultati altre 84 navi e hanno sparato a 120 barche. Sono stati tenuti in ostaggio 1052 marinai. Il Canale di Suez è la zona più a rischio. Lì sono avvenuti 47 sequestri lo scorso anno. In gran parte si tratta di petroliere.
Per liberare le petroliere sequestrate sono stati pagati attorno ai 50 milioni di dollari lo scorso anno. Il sequestro più importante è stato quello della Siurius Star, superpetroliera saudita sorpresa dai pirati al largo del Kenya nel novembre 2008 mentre aveva a bordo 2,2 milioni di barili di petrolio. Tra petroliera e petrolio era un bottino da quasi 300 milioni di dollari. I pirati (erano somali) iniziarono a chiedere 30 milioni per abbandonare la nave. Alla fine, l’8 gennaio 2009, la liberarono accontentandosi di 3 milioni.
Altro problema delle petroliere sono i danni causati dai loro possibili incidenti. Negli anni passati sono stati molti i disastri ambientali causati dal naufragio delle petroliere. Su tutti l’incidente della Exxon Valdez, il 24 marzo 2008, che riversò al largo dell’Alaska 38.800 tonnellate di greggio contaminando 2mila chilometri di coste. L’italiana Erika, nel 1999, affondò al largo della Bretagna, un’altra nave, Jessica, nel gennaio del 2001 fece naufragio vicino alle Galapagos.
Nel caso del gas il trasporto passa soprattutto dai gasdotti (75%) e molto meno dalle navi (25%). Tra i più famosi gasdotti attualmente in utilizzo ci sono Blue Stream, che collega la Russia con la Turchia; Greenstream, che collega l’Italia alla Libia; il Gasdotto Enrico Mattei, che collega l’Italia all’Algeria via Tunisia.
Dato che la domanda di gas naturale è prevista in forte aumento nei prossimi anni, in Europa ci sono diversi progetti di gasdotti in corso di realizzazione. Molti riguardano l’Italia: la condotta Galsi – 900 chilometri di tubi dall’Algeria alla Sardegna, 8 miliardi di metri cubi annui’, l’Igi – 800 chilometri, dal Mar Caspio a Otranto passando per la Turchia, e altri 8 miliardi di metri cubi di metano – o il Transadriatico, che parte dal’Albania.
I due progetti più importanti sono North Stream – dalla costa russa sul Mar Baltico, attraverserà le acque per 917 chilometri e riemerge in Germania, una capacità di 27,5 miliardi di metri cubi annui – e South Stream, che dal mar Caspio, attraverso il Mar Nero, dalla costa russa a quella bulgara, per poi diversi in due tronconi, uno diretto in Puglia e l’altro verso l’Austria. La capacità massima prevista è di 63 miliardi di metri cubi all’anno, il costo preventivato è di 25 miliardi di euro. I lavori dovrebbero concludersi nel 2015.
Il progetto South Stream è a metà tra la russa Gazprom e l’italiana Eni. Ma l’Europa sponsorizza un progetto alternativo. Si chiama Nabucco – come l’opera verdiana che i fondatori avevano sentito la sera in cui decisero di avviare il loro piano – ed è stato lanciato nel 2002 dalla compagnia austriaca Omv e dalla turca Botas, col successivo coinvolgimento della bulgara Bulgargaz, la romena Transgaz l’ungherese Mol. Nabucco attraversa la Turchia collegando il Caspio al Mediterraneo, senza coinvolgere la Russia. Sarà lungo 3.400 chilometri, avrà un capacità di 30 miliardi di metri cubi e costerà 4,6 miliardi di euro. Il consorzio prevede di realizzarlo per il 2014.
Nabucco ha l’appoggio anche degli Usa, mentre la Banca europea degli investimenti e la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo hanno garantito i finanziamenti. L’obiettivo di questo progetto è evidente: ridurre la dipendenza europea dal gas russo.
L’alternativa ai gasdotti sono le navi e gli impianti di rigassificazione. Il procedimento consiste nel portare il gas allo stato liquido, trasportarlo in grandi navi e scaricarlo in un rigassificatore, un impianto che riporta il combustibile allo stato ”aeriforme” e lo mette nella rete. Alcuni Paesi hanno scelto di costruire i rigassificatori. Lo ha fatto, per forza, il Giappone, che oggi conta 23 impianti di rigassificazione. In Europa la Spagna ne ha 6, la Francia e il Regno Unito e l’Italia ne hanno 2, Grecia, Belgio e Portogallo 1.
Costruito negli anni Settanta dalla Esso e oggi gestito da Gnl Italia, una società di Snam Rete Gas, il primo rigassificatore italiano è a Panigaglia (nel golfo di La Spezia). L’altro è nuovissimo: è quello di Rovigo, inaugurato nel 2008. Entro il 2015 il nostro Paese dovrebbe però completare la realizzazione di altri tre impianti: Livorno, Porto Empedocle (Agrigento) e Trieste.
L’energia passa anche direttamente da uno Stato all’altro sotto forma di elettricità. Secondo l’Eurostat l’Italia è fra i primi 5 Paesi importatori di energia elettrica nell’Unione europea, davanti a Olanda, Finlandia, Belgio e Regno Unito. Nel 2007 l’Italia ha importato 46.238 Gwh di energia elettrica dai Paesi vicini.
La Relazione annuale dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, di luglio 2009, dice che nel 2008 le importazioni di energia elettrica hanno garantito la copertura dell’11,7% del fabbisogno nazionale. Le importazioni dalla Slovenia e dalla Grecia sono aumentate, rispettivamente, del 45,4% e del 2,8%, mentre sia le importazioni dalla Francia sia quelle dalla Svizzera sono diminuite di circa il 17%. Per quanto riguarda le esportazioni invece, l’aumento dei flussi è stato determinato soprattutto dal contributo della Grecia (+59,2%) e della Svizzera (+512,2%).
Secondo Terna nei primo semestre del 2009, l’interscambio con l’estero ha garantito, a saldo, un apporto di energia elettrica pari a 23,9 miliardi di kWh. In dettagli 880 milioni arrivano dalla Grecia ed entrano in Puglia, 4 miliardi e 400 milioni arrivano dall’Austria e dalla Slovenia ed entrano in Friuli. Dalla Svizzera entrano 11miliardi e 700 milioni di kWh in Lombardia, mentre altri 7 miliardi e 300 milioni entrano in Piemonte, dalla Svizzera e dalla Francia.
Proprio la forte dipendenza dalla Svizzera aveva lasciato, nel settembre del 2003, tutto il Nord Italia al buio per un’intera mattinata. La causa era stata una rottura delle linee da 380mila volt della società elettrica elvetica Atel, che passavano per il colle di Lukmaier, nella regione di Brunnen.