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 2010  gennaio 24 Domenica calendario

IL CARATTERE DI JACQUELINE

tienne Pascal, consigliere di Stato, presidente del Tribunale per la cause fiscali di Clermont in Arvernia, ebbe tre figli: Gilberte, sposa poi a Florin Périer, consigliere di quel medesimo Tribunale; Blaise, il filosofo; e Jacqueline, monaca a Port-Royal des Champs, degna per intelligenza, cultura e temperamento del grande fratello. Certamente degna di una monografia fine e intelligente come quella che le dedica Silvana Bartoli, snidando la donna dal cono d’ombra in cui è fatalmente relegata da quella vicinanza, per cogliervi una personalità "appassionata, difficilmente racchiudibile negli spazi secondari riservati al femminile", e delineando non solo un ritratto e narrando non solo una storia, ma conducendo un affondo su un’epoca e una società.
A Jacqueline Pascal fanciulla si aprivano i più lieti orizzonti mondani. Imparò a leggere sui libri di poesia e a otto anni scriveva versi ammirati se non mirabili. A tredici ne compose sulla gravidanza della regina Anna d’Austria di incredibili anche nel secolo in cui il fine del poeta è la meraviglia: «Questo bimbo sarà più prode del dio della guerra / poiché prima che il suo occhio abbia visto le stelle / un solo piccolo suo movimento / è un terremoto per i nostri nemici». Poco dopo recitò davanti al cardinale di Richelieu e godette delle sue grazie. A Rouen, dove la famiglia si trasferì, conquistò l’ammirazione di Corneille per i suoi talenti. Serena, allegra, di un’innocenza infantile, colpita e deturpata in viso dal vaiolo come allora capitava sovente, ne lodò Dio. Poi a Parigi assistette alle conversazioni di suo fratello con Roberval e Cartesio – tipo suscettibile – sulla geometria e la teologia, e udì cantare quei due in carrozza delle canzoni da ubriachi quando se ne andarono lasciando Blaise sfinito.
Di punto in bianco lasciò tutto questo. Non appena suo padre morì, nel 1651, entrò ventiseienne in monastero, a Port-Royal-des Champs, sede delle suore più devote e della migliori intelligenze di Francia. Suor Jacqueline de Saint-Euphémie vi assolse incarichi importanti e delicati, fu maestra delle novizie e impostò con un organico Regolamento l’educazione giovanile. Ma la sua fine era segnata dalla percettibilità della sua anima. Quando si abbatté la bufera antigiansenista, provò lo strazio più acuto che può lacerare un’esistenza come quella.
Il libro della Bartoli è cadenzato sul motto agostiniano: "Fuori della Chiesa non c’è salvezza". Ma quando la coscienza sente in modo diverso da quello che i Pastori impongono? Nel 1661 l’Assemblea del clero di Francia e la Facoltà teologica di Parigi imponevano ai religiosi, in una forma insinuante e ambigua, la firma di un Formulario che condannava le dottrine eretiche contenute, a loro dire, nell’Augustinus di Giansenio e relative alla predestinazione e alla grazia. Molti chinarono il capo per disciplina, poi si pentirono e protestarono. Anche la resistenza di Port-Royal fu domata con l’intervento dello stato; quelle religiose soffrirono, come disse uno dei loro padri spiritua-li, «pene che gli uomini di mondo non concepiscono nemmeno, poiché nemmeno le sentono ». Fu una crisi tremenda. «Parecchie monache ”narraRacine – si ammalarono perché furono co-strette e firmare, e la sorella del signor Pascal fu colpita da una febbre che la condusse alla tomba». Infine, fuori della Chiesa non c’è salvezza: ma, e fuori di Port-Royal? «Quel piccolo focolare – annotò Montherlant quando scrisse la sua pièce – risplendette nella persecuzione, e rischiara con le lacrime la notte della storia»; distrutto in quell’occasione, le sue macerie continuano a darci la misura delle sofferenze che hanno racchiuso e rifulgono dell’attrazione che hanno i combattimenti per le cause perse.
Modelli straordinari di un secolo, protagoniste di una lotta che ha dilaniato e ha inciso sulla Francia, interpreti e vittime di problemi e di circostanze storiche che oggi ci paiono remoti mille miglia, la meraviglia sconvolgente che suscitano questa anime ha ceduto il posto anche a ciò che disse Victor Cousin in conclusione della propria biografia di Jacqueline: che esse «non hanno capito la vita umana». Ma se anche, come riconobbe una di loro stesse, fu una vera follia la loro resistenza e il male che gliene venne «esso richiede la carità di averne pietà; ci si può far beffe della loro semplicità, ma sarebbe crudele costringerle a ciò che le farà morire».
E qualche altro punto della lettera di Jacqueline citata più sopra non è certamente così fuori dai tempi e dal mondo se riletta anche oggi, dopo le esperienze religiose e politiche dei nostri tempi e gli esempi che se ne è avuti: piegarsi con la giustificazione che si deve farlo per dovere d’obbedienza, «questa è la scusa abituale di coloro che amano il potere? La mia coscienza non mi permette di sottoscrivere una cosa dove io non l’ho vista.Dopo attenderò con pazienza ciò che accadrà». Invero Jacqueline,anche se all’entrare in convento si era spogliata di ogni let-teratura, sapeva ancora scrivere come i maestri non solo della morale ma della retorica: «Il nostro primo dovere è l’umiltà, ma l’umiltà senza fermezza è debolezza, e il coraggio senza umiltàè presunzione». E con una certa alterigia che invece malgrado tutto non l’abbandonò mai e che indispettiva Mauriac: «So bene che si afferma che non tocca alle fanciulle difendere la verità; ma quando i vescovi hanno un coraggio da fanciulle, le fanciulle devono avere un coraggio da vescovi».